Fin da bambina leggere per me non è stato solo un modo per passare spensieratamente un paio d’ore ogni pomeriggio e per immergermi in avventure epocali, ma anche e soprattutto l’unico modo che avevo a disposizione per viaggiare, andare lontano, conoscere e toccare realtà che mai in altro modo avrei potuto sfiorare.
Crescendo, continuando a leggere e catalogando le mie letture mi sono resa conto che ultimamente quei viaggi di cui tanto andavo fiera diventavano sempre più circoscritti ad alcune specifiche aree del mondo: Europa, Stati Uniti, qualche occasionale puntata in Asia. Sapevo poco o nulla della letteratura africana e non perché io la trascurassi di proposito, ma perché il mercato dell’editoria in Italia offre davvero poco spazio e visibilità agli autori che esulano dalla cultura occidentale, a parte qualche best seller del momento.
Galeotto è stato il corso universitario di letteratura e transculturalità che mi ha portato con “Le cose crollano” di Chinua Achebe a conoscere un’Africa variopinta, patriarcale, con una religione votata al culto degli antenati, fondata sul timore degli spiriti e con un’attenzione particolare rivolta al responso degli oracoli.
Racconto stupendo e terrificante di un cambiamento sociale drastico, quanto impietoso, della perdita di una identità.
“Le cose crollano” parla di “scontro” di culture, di colonialismo, di incomprensione ed esilio.
Il romanzo trasporta il lettore dapprima in una Nigeria precoloniale, in cui viene presentata una società che a un occhio di un occidentale attento risulta fortemente lontana perchè “primitiva”, poiché ancorata a credenze e costumi atavici.
Per più di metà testo osserviamo la vita di Okonkwo, eroico guerriero e uomo vincente del clan dei nove villaggi di Umofia; uomo vincente, sì, ma con i piedi d’argilla, oppresso da una continua paura di sembrare debole, perseguitato dall’ombra di un padre assai creativo ma ben poco interessato al successo, sempre afflitto dalla cronica incapacità di avere un rapporto equilibrato con i suoi sentimenti.
Egli è un lavoratore instancabile, un padre e marito violento e spietato ma non appena ci spogliamo dei paraocchi, Achebe ci aiuta a capire, nonostante le profonde differenze culturali, quanto egli sia in realtà una cosa precisa, ovvero un tradizionalista. Un rigido interprete della tradizione.
Successivamente, i primi contatti con gli occidentali e il delinearsi del progetto coloniale inglese plasmano il territorio con una velocità sorprendente, e altrettanto repentino e inesorabile si presenta il disfacimento dall’interno di quella società che per secoli ha mantenuto inalterata la propria identità, la propria anima.
Da qui l’inizio del crollo: il crollo dell’identità di un popolo, il crollo delle tradizioni, delle credenze, di tutto ciò che fa di un popolo una società ma anche il crollo di un uomo, la sua identità, la sua fede, il crollo di tutto ciò in cui crede e si riconosce.
La prosa dell’autore ha il ritmo tranquillo, pacato e musicale di un racconto attorno al fuoco, intercalato da proverbi e metafore, racconto che utilizza tempi e stilemi narrativi tipici del racconto popolare e delle leggende evocando suoni, odori, colori di una Nigeria a noi lontana e sconosciuta per cultura e storia.
Feste, rituali, religione, abbigliamento, cucina, chiacchiere e cerimonie, tutte insieme a formare un mosaico ricco, colorato e avvincente della vita di quella tribù.
È difficile individuare il momento esatto in cui, durante la lettura, ho preso coscienza che la prospettiva di Chinua Achebe è differente da quella a cui ero abituata.
In “Le cose crollano” è l’Africa che parla di sé stessa, con la propria voce, utilizzando il proprio linguaggio, un suo stile. Questo è il cambiamento più importante portato dalla letteratura di Achebe. Fino a quel momento di Africa ne scrivevano gli stranieri: gli antropologi, i viaggiatori, i missionari europei. In “Le cose crollano” le storie, le tradizioni, i riti, le superstizioni (che per centinaia di anni sono state l’unica realtà nelle tribù africane e spesso resistono ancora oggi) sono state narrate dall’interno, dalla penna di uno scrittore che in quella cultura ci è nato e cresciuto: “La sua cultura africana gli è madre ma la sua parte europea gli è padre”.
E la potenza narrativa è completamente diversa; così realistica, completamente immersiva, travolgente ed avvolgente!
Chinua Achebe ha uno stile semplice, fluido e pulito. Difficile non divorare il libro, difficile non lasciarsi trasportare dalla curiosità di conoscere un mondo così variopinto così lontano e diverso dal nostro.
La tragedia silenziosa e affilata di questo romanzo lascia chi lo legge con molte conoscenze in più e molte certezze in meno, una sola rimane su tutte: non esistono culture migliori o peggiori e nessuno può arrogarsi il diritto di insegnare la vita!