Tempo di uccidere
RECENSIONI

Tempo di uccidere – Ennio Flaiano

In quei giorni in cui si è tanto parlato e sparlato dell’edizione 2022 del Premio Strega, mi sono presa una pausa e ho pescato nella libreria di casa un libro che avevo lì in attesa paziente: Tempo di uccidere, che valse a Flaiano la vittoria del primo Premio Strega, nel 1947.

Conoscevo il Flaiano sceneggiatore, naturalmente, e altrettanto ovviamente conoscevo il Flaiano autore di aforismi fulminanti, irresistibili, tremendamente veri.

“La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”.

 

Non conoscevo, colpevolmente, il Flaiano romanziere, ma ho una scusante: Tempo di uccidere è il suo unico romanzo dato alle stampe e, nonostante il grande successo ottenuto non fu mai considerato importante dal suo stesso autore.

“La sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso (…) Ricevevo un premio ambito per un romanzo che ora trovavo tutto da riscrivere”. 

La guerra era terminata da poco, era tempo di ricostruzione, di rinascita e nessuno aveva voglia di ricordare i lati più spiacevoli del passato nazionale: il fascismo, le colonie d’Africa e l’esercito sembrano accordi stonati in un Paese che sta facendo di tutto per lasciarsi alle spalle gli anni più bui e crudeli della propria storia.

Eppure, Flaiano ci vuole parlare proprio di questo: vuole costringerci dentro qualcosa di molto scomodo, vuole portarci con sé in una terra distorta dal ricordo, in un sogno che diventa ora grottesco e surreale, ora labirintico e asfissiante.

Ennio Flaiano mette da parte la gigioneria che gli è propria e ci racconta un’Africa maestosa e lenta, un “impero mancato”, in cui i rapporti tra indigeni e “signori” sono segnati dalla difficoltà di comunicare.

L’Africa con la sua dispersione e la sua inafferrabilità, con i suoi indigeni muti e dagli sguardi fissi diventa lo scenario perfetto per le solitudini e le convinzioni errate.

“Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza”.

 

La trama del romanzo è essenziale, scarna come il paesaggio brullo e devastato in cui la narrazione è ambientata: nel clima arido e straniante di un’Etiopia confusa e addormentata, un tenente italiano, del quale non conosceremo mai il nome, s’imbatte in una giovane e bella ragazza del luogo e decide di passare la notte con lei. Da quel momento, a partire da un tragico incidente che la vedrà coinvolta, gli eventi si rincorrono in una successione rapida e serrata, da cui sembra impossibile scappare o sottrarsi.

Non c’è segno di nobiltà ed eroismo nei militari che Flaiano riversa su carta. Ognuno a modo suo sembra disilluso, annoiato o disperato per una mancanza di senso che lentamente assume il controllo di ogni cosa: non servono imprese eclatanti per raccontare i risvolti umani della guerra, né per descrivere il rapporto difficile e controverso che nasce tra vincitori e vinti.

Dietro il tenente e i suoi commilitoni, il vero motore della storia, l’ingranaggio principale che muove l’intero racconto è il senso di colpa del colonizzatore, che non si percepisce come un mostro ma quasi una vittima costretta a perpetrare il male voluto da un destino troppo beffardo e crudele che l’ha voluto dominatore e sfruttatore.

Il senso di abbandono pervade i soldati e sembra motivare le loro azioni – gli scherzi, le atrocità – in una sorta di impenetrabile bolla destinata a galleggiare spaesata nella fervida memoria senza mai riversarsi veramente nella vita vera, in quell’esistenza incerta e tremolante come un miraggio che attende tutti al rientro in patria.

Aleggia su tutto la differente concezione del tempo; così pressante per l’uomo occidentale “pratico” che non lo ha mai e così vasto e senza scampo quello africano.

Ma cos’è la colpa, cos’è il destino in questa propaggine di civiltà affogata in un passato incomprensibile?

Flaiano è bravissimo nel gioco di sponda tra due forze, tra l’esterno e l’interno, il protagonista e gli altri, il presente dell’Africa miserabile e rovente e il passato che si proietta nel futuro della casa, degli affetti, del tepore domestico e della quotidianità cittadina, fino alle donne indigene e la “Lei” delle lettere, l’icona femminile della vita coniugale, tutto idealizzato fino a farne sagome cartonate che traggono vita e nutrono una tiepida illusione solo attraverso i ricordi e poche lettere piene di enfasi autoconsolatoria. 

Ciò che rimane schiacciato dal cozzare di quelle forze è il castello di ipocrisia.

Quello che si rivela è la natura morbosa, allucinata dell’animale umano preda costante della paura, logorato dall’ansia di essere malato, terrorizzato dallo scoprire la realtà che si era nascosto, infine conscio della dimensione infinitesimale della propria esistenza.

È tutto primordiale. La vita, il sesso, la morte. Un Eden rovesciato dove prevale la malattia, anche la bellissima natura è malata, anche la donna, forse ha la lebbra, forse prima di morire ha infettato l’ufficiale. Forse il vecchio lo ha però guarito.

Confessare la storia può assolvere dalla colpa? O almeno dare un poco di riposo e pace?

L’intero romanzo può essere visto come una critica raffinata, sottile ma spietata alla retorica del colonialismo, che voleva le donne africane innocenti e sessualmente sottomesse, gli indigeni vili e arretrati, i conquistatori prodi, civilizzati razzialmente e geneticamente destinati al comando.

Là dove parte della critica contemporanea vide un protagonista troppo debole, l’antieroe per eccellenza il lettore di oggi può forse scorgere un personaggio vertiginoso e inquietante, che somiglia in modo sinistro a tutti noi: presunti innocenti, ingranaggi del sistema, formiche che camminano a testa bassa in fila verso i loro cunicoli.

La sua è una discesa consapevole negli inferi della condizione umana, una corsa disperata sull’orlo di un precipizio che sembra volerlo inghiottire ad ogni passo.

Tempo di uccidere si ripropone al lettore come un’opera controccorrente e in qualche modo anacronistica, lontana dai dettami del neorealismo in quell’epoca dominante, in cui un protagonista spaesato e irresoluto richiama l’esistenzialismo di Camus ( con “Lo straniero” ) e allo stesso tempo quel modello di “inetto” su cui sono impernati i romanzi di Svevo e Pirandello, in cui il Caso si presenta come una forza occulta dominante.

“Tempo di uccidere” è un romanzo bellissimo, attuale, vivo, convulso e amaro, che ancora oggi non perde di significato anzi, sembra piantare con maggiore tenacia radici di consapevolezza nella calma apparente della nostra civiltà.

AUTORE: Ennio Flaiano

GENERE: Romanzo

EDITORE: Adelphi 2020

NUMERO DI PAGINE: 329

NOTIZIE: Vincitore Primo premio Strega del 1947.

Testo commissionato da Longaresi a Flaiano.

Acquistato online

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