
V13 – Emmanuel Carrère
Mentre leggevo, ho fatto mente locale: 2015
Poco meno di otto anni fa.
Certi fatti ci fiancheggiano nel tempo con un certo grado di inconsapevolezza …
Per me il 13 Novembre non era un giorno poi così diverso dagli altri. Un venerdì da venticinquenne come tanti, da trascorrere in famiglia, dopo una giornata pregna di volti, ospedali, preoccupazioni e incertezze.
Lo ricordo benissimo, mi sembra di toccarlo!
Era sera, erano già terminati i vari telegiornali serali ed eravamo seduti in salotto a svuotare pensieri, assaporando un vecchio film, a sfondo poliziesco, della rete Mediaset, quando all’improvviso si interruppero i programmi televisivi per dare comunicazione di quanto era accaduto.
Se torno indietro e ripenso ad eventi storici che hanno avuto un impatto destabilizzante sulla mia coscienza adulta, trovo una differenza marcata e spiccata tra ciò che mi accadde con le Torri Gemelle e ciò che è stato per me Charlie Hebdo o la sera del Bataclan.
Un dolore subito spento nell’atto concreto di una decisione, nella frazione dell’invio di un’e-mail di disdetta e rimarcato a fuoco nella distanza che non è stata solo una distanza di tempo, di spazio, ma una distanza di approccio, di necessità.
Una distanza nel vivere, interrogare e metabolizzare.
E tutto ad un tratto un libro, nella concretezza degli atti, del dolore e delle parole mi restituisce in forma scritta l’occasione per tornare al passato, sui miei passi, in un frangente della vita, in quei giorni, aprendo quel dialogo condiviso che mi era mancato, sfuggito o forse evitato, sepolto dall’immaturità e dalle difficoltà personali del momento.
Ed elaborando e rielaborando i pensieri, sul diario di bordo, a fine lettura, appunto…
Da sempre lo studio di una materia come la filosofia prende forma e movimento da poche e semplici domande: le esplorate e tanto tormentate domande sulla vita, quelle comunitarie, di tutti.
Camus nel “Mito di Sisifo” scriveva:
“ Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio, giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto, se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie, viene dopo.”
Come è possibile allora, dal punto della filosofia, comprendere quali vite siano degne d’essere vissute? Quali vite valga la pena vivere? E come si arriva a concepire l’idea di sterminare interi gruppi di persone decretando il loro sacrificio come indispensabile?
Filosoficamente moltissimi pensatori sono partiti da interrogativi come questi, o affini, per comprendere e motivare la portata di avvenimenti drammatici che hanno segnato la storia dell’umanità nel suo insieme: i campi di concentramento nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, la possibilità di una guerra atomica, gli attentati dell’11 Settembre nel 2001.
E anche Carrère ha affrontato queste domande all’interno del suo ultimo lavoro V13 pubblicato in Italia per Adelphi.
… V13 è il libro dell’ascolto…
Gli attentati del 13 novembre 2015 hanno completamente sconvolto la percezione della paura e del pericolo. Una paura sottile, nuova, un sentore collettivo e generazionale di non riuscire più a sentirsi al sicuro. A scuola, al lavoro, per strada e nemmeno nei luoghi di svago. Una paura che ha paralizzato e che continua a tenere sotto scacco le grandi capitali europee. Una condizione nuova che dall’11 settembre 2001 è entrata prepotentemente nella realtà occidentale e costringe alla consapevolezza di una nuova fragilità: profonda e irreparabile. Esseri umani, famiglie, giovani, lavoratori, future madri: vite spezzate per chi non ha avuto la possibilità di viverle ma anche per chi resta. A ricordare, a commemorare e a sopravvivere al dolore, al lutto e all’ingiustizia.
V13 ha uno strano effetto sul lettore: concretizza la dilatazione del tempo…
Nel tempo oggettivo dei fatti, delle ore, degli spari e delle esplosioni penetra quello della lucida agonia delle vittime nei momenti clou degli attacchi, i terribili istanti in cui si accende la consapevolezza della morte. Vi si innesta dentro il tempo dell’elaborazione del lutto (che è una dimensione sempre presente) quello della raccolta delle evidenze, della loro discussione e ridiscussione, tra domande, silenzi e nuove domande. Su questi fragili tempi si inseriscono altre ore, le ore del processo e quelle della scrittura, che sono ore di riflessione, comprensione e condivisione.
Le settimane in cui Carrère e gli altri che hanno vissuto al Palais de Justice hanno maturato un cambiamento da cui è impossibile tornare indietro, voltare pagina.
E poi c’è il tempo di una possibile giustizia e di una ricostruzione.
Come tutte queste dimensioni, impossibili da scandire con il solo passo dell’orologio, si racchiudano, si fondano e confondano una nell’altra è difficile da spiegare, ma leggendo è qualcosa che diventa tangibile.
Il racconto del reale danza con la sua profonda e singolare visione della realtà. Si cedono a vicenda il giusto spazio, con galanteria, per ricordarci che nella vita le esperienze di terrore, morte, pietà e amore non possono essere che rese così: guardandole con i nostri occhi vigili, ma pur sempre parziali, di semplici e piccoli esseri umani.
Per lo spazio della lettura ci accomodiamo con lo scrittore sulle panche scomode della grande scatola bianca, dal volto di chiesa, senza finestre, pensando di sapere già come ci sentiremo di fronte alle vittime e agli imputati: indignati, offesi, desiderosi di vendetta.
Eppure, non si tratta di assistere a una esecuzione pubblica, di leggere una fiaba in cui da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi.
Non ci sarà un lieto fine.
Ci sono le vittime sì, alcune sono “vere”, altre “indirette”, altre ancora fanno parte della categoria “spettatore involontario”.
Per chi rimane, per chi quella sera ha la possibilità di raccontarla, rimangono i traumi, il ricordo di una vita che si è fermata lì, improvvisamente e non è più andata avanti.
Maya, una ragazza che si trova in uno dei ristoranti presi d’assalto, il Carillon, racconta di aver assistito agli ultimi momenti di vita di uno sconosciuto, accanto a lei:
“Sono l’unica testimone della sua morte, non saprò mai il suo nome”.
Da quel momento ha smesso di correre, sognare, di vivere.
Nadia si sforza di immaginare gli ultimi trentacinque minuti di vita della figlia Lamia, che si trova al caffè La Belle Équipe con il suo nuovo ragazzo Romain, nella condizione di “un amore allo stato aurorale”.
Al Bataclan, alcuni si sono sdraiati a terra, fingendosi morti, altri sono scappati, correndo sopra quella distesa densa e umana di sangue e corpi.
C’è chi dice che la cosa peggiore sia stata essere calpestati, chi invece è convinto del contrario, che sia peggio aver calpestato, per via di quel senso di colpa destinato a rimanere per sempre.
Insieme a Carrère, con lo scorrere incespicante delle pagine, tra quegli articoli frammentari di 7800 battute, separati da uno spazio bianco, impariamo nuovi termini, nuove espressioni, nuovi concetti per mettere a fuoco il momento, il dolore, la sofferenza, per cercare di proteggerci o quanto meno di fare un po’ di chiarezza.
Il “danno da lucida agonia”, che colpisce quelli che arrivano alla consapevolezza che stanno per morire, la “depressione melanconica”, che è uno dei tanti effetti del trauma fino ad arrivare ai danni fisici, al “grande fracasso facciale”, all’essere “dilacerati”, riferito ai corpi dei kamikaze che esplodono e si fanno “coriandoli”.
Tutte parole che prendono forma, tridimensionalità, peso e consistenza ora, nello spazio di un foglio, scritte nero su bianco, nel silenzio di un ricordo, strappate alla volatilità e all’abitudinarietà di un vocabolario giornalistico, staccatesi rapide dalla voce omologata di un servizio televisivo.
Sul piano giuridico si parla anche di “giustizia riparativa”, che prevede un incontro, un dialogo tra le vittime e i colpevoli.
Ci troviamo così, alla fine, a mettere in discussione molto di quello che credevamo di conoscere sul fondamentalismo islamico, sul nostro rapporto tormentato con il “noi” e con il “loro”.
“Il libro dovreste leggerlo dall’inizio…”
Ferocia, fanatismo e sofferenza in più punti commuovono e tramortiscono regalando nuove consapevolezze: la gratitudine di esserci per trasformare il dolore in qualcosa di diverso.
Il percorso di V13 è un sentiero infernale, un insieme di dolore, sofferenza, ideologia e follia omicida. Ma è anche una lucida analisi della complessità del fenomeno terroristico, è la capacità di guardare negli occhi i familiari delle vittime o i sopravvissuti e sapere che niente, non solo per loro sarà più come prima. Risuonano allora parole come “eroi”, “vittime”, “coraggio” e sono la bussola per orientarsi in un viaggio che, se da un lato vuole capire e comprendere il perché di ciò che è accaduto, dall’altro dà voce alle vittime e ai carnefici, ci ricorda la “lucida agonia” di chi c’era, ci trascina verso il fondo dei sensi di colpa, del divario sempre più sottile tra bene e male.
V13 non lenisce, non blandisce il lettore, ma descrive. Le arringhe degli avvocati, le intercettazioni, lo sfogo di una madre che ha perduto sua figlia, le vite rovinate dei sopravvissuti, il diritto alla difesa, i risarcimenti per le vittime.
Nel tripudio episodico di V13 ogni cosa è ridotta all’osso, all’essenziale e di tanto in tanto incappiamo in una ridondanza in un richiamo, in una sottolineatura, in un ritorno di voci e volti.
Ci ritroviamo stretti e intrappolati tra le pareti cieche di un tribunale dell’Ile del la Cité dove c’è solo il lezzo dei cadaveri e le lacrime di chi è rimasto vivo nel silenzio assordante di carnefici votati al mutismo, al negare risposte, insinuando domande.
Il lettore ammaccato e stordito compie comunque la traversata delle pagine.
Il processo si chiude in una giornata d’estate …. qualcuno ne è uscito purificato, per altri non c’è ancora una via di salvezza.
E poi c’è Carrère, c’è quello splendido intervento della sua voce, della sua narrazione, del suo lavoro di giornalista e scrittore, che bilancia la cronaca con l’umanità, la professionalità e il guardare oltre per sapere già cosa ci sia da raccontare.
Non si può restare indifferenti alla materia di certi libri così come non ci si può non domandare, senza umani brividi, cos’è il male, quanto appartenga al mondo intorno a noi e a quello dentro di noi.
C’è chi muore per salvare, chi per uccidere, qual è il mistero più grande?
La grande letteratura non è fatta per essere solo utile, per dare risposte, per offrirci una morale pronta all’uso ma è una porta con affaccio su nuove domande, nuovi mondi, spazi e tempi, uno spazio confidenziale e intimo per ridefinirsi, scoprirsi, confrontarsi con parole, pensieri, un momento per interrogare e interrogandosi.
E come sottolineava Simone Weil, ripresa da Carrère e letta a più riprese dalla Morante:
“Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore… desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante”
TITOLO ORIGINALE: V13 Chronique judiciarie
AUTORE : Emmanuel Carrère
Intervista a Emmanuel Carrère – Che tempo che fa 26/03/2023
TRADUZIONE DI: Francesco Bergamasco
POSTFAZIONE DI: Grégoire Leménager
GENERE: Cronaca giudiziaria
EDITORE: Adelphi 2023 ( La collana dei casi )
NUMERO DI PAGINE: 267
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