1° Novembre
Blog,  Le chiacchiere del ...

1° Novembre

All’ ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?”
Ugo Foscolo, I sepolcri.

Riecheggiano nella mente antiche e colte reminiscenze letterarie, in questo rigido e raccolto mese di novembre, dedicato al ricordo dei defunti, nel varcare il ferroso e monumentale cancello del Cimitero di paese;  luogo di riposo, nel suo significato etimologico, ma in realtà luogo di dolorose nostalgie e di lacrime, nel sentire comune.
Eppure, soprattutto in occasione della ricorrenza dei morti, i Cimiteri si accendono, si animano, tornano a vedere bambini, ad ascoltare voci, a interpretare storie, a raccontare volti, a parlare di vita: le tombe adorne di fiori dai più svariati e sgargianti colori, i fiochi lumini accesi, il via-vai delle persone in visita ai propri cari, i verdi cipressi secolari schierati come soldati a fiancheggiare i vialetti, parlano più di presenza che di assenza, come se un invisibile e sottile filo conduttore del ricordo legasse i vivi ai morti, oltre il tempo e lo spazio, in un “per sempre” che profuma di eternità. Ogni tomba, dalla più semplice a quella più monumentale, parla di chi, virtualmente, la abita e il cui nome, sempre in chiara evidenza, identifica una persona che è stata, che continua ad esserci nel cuore di qualcuno e che chiede a gran voce di non essere dimenticata.

Il ricordo dei nostri cari che ci hanno lasciato ci accompagna sempre, ogni giorno ed è bello continuare a fare per loro piccoli gesti familiari e consueti come quello di tenere la loro “casa” pulita, ordinata e allietata dai fiori. È un modo per sentirli ancora vicini, per stringerli in un caloroso abbraccio anche se in un modo diverso. Col passare degli anni il dolore della perdita si attenua e rimangono ricordi di vita vissuta, nostalgia per gesti e parole non detti e non fatti e la certezza della vita futura.

Passeggiare in un cimitero, come si usa fare da tradizione in questi tristi e struggenti giorni, fa sempre uno strano effetto e lascia impressa sulla pelle una marcata e distinta sensazione.  Entri in contatto con una parte della tua esistenza che volentieri spesso ignori e trascuri, come quei vecchi e consunti bauli che deponi in solaio e che dimentichi per anni. Calpestare quelle tombe, osservare quei marmi, quei monumenti funebri, fa riemergere qualcosa di vitale e radicalmente umano ed affiora nella tua mente come qualcosa di celato che ti appartiene da sempre, che racconta la tua storia, le tue origini: chi sei, da dove vieni e dove vai.

È strano: quelle tombe mute e solitarie sanno scuotere e ridestare la tua esistenza come poco altro al mondo; arrivano al tuo cuore e alla tua mente con una immediatezza ed una ferocia difficilmente comparabili. Improvvisamente e inaspettatamente ti pongo di fronte al tuo destino, ad un passaggio tragicamente ineludibile della tua vita, della vita di tutti; spazzano via illusioni e sogni e ti riportano alla durezza e alla serietà dell’esistenza.

Quando osservi quei visi sbiaditi, statici, incorniciati e sorridenti, che sempre più numerosi conoscevi e frequentavi, comprendi che in fondo erano uomini come te e tu come loro; uomini con sogni, aspirazioni, progetti, affetti e ricordi, con speranze e drammi, con dolori e passioni. Uomini che hanno concluso il loro andare su questa terra, il loro pezzo di storia e ora ti osservano da quel luogo di riposo con sguardo pacato, sorridente e fare interrogativo. Scrutando i lori visi è come se ti dicessero: saprai vivere una vita capace di sopportare il peso della morte? Possiedi una ragione che sa accettare lo scandalo della fine? Hai un fine che va oltre la fine?

Certo è che tutto il tuo baldanzoso e spesso sconsiderato andare, la tua vitalità subiscono uno scossone, sono costretti a rallentare quanto visiti certi luoghi… il tuo sproloquiare viene ammutolito, le tue pretese ridimensionate, il tuo ardire resta inerme, ferito, disteso a terra.

Una volta all’anno per dovere siamo messi di prepotenza di fronte alla realtà, al senso radicale del nostro limite, del confine misterioso verso cui siamo diretti, verso quella dimensione della soglia che ci interroga e ci turba.

Possiamo essere dei manager, uomini di successo e di talento, grandi artisti e scienziati, pensionati o casalinghe, muratori o imbianchini, star del cinema o falliti, ricchi o disperati, felici o angosciati, ma alla domanda che nasce visitando un cimitero tutti sono chiamati, con estremo senso democratico ed ugualitario, a dare la medesima personale risposta: a quell’interrogativo non si sfugge, non ci è concesso soprassedere o rimandare, ma accompagna silenziosamente ogni nostro giorno, ogni nostro istante.

A bene vedere ha a che fare con il senso che diamo alla parola speranza.

Ci sono alcuni luoghi che frequentiamo sin da piccoli, e che eppure non conosciamo mai veramente. Questo perché vi andiamo sempre a riempire frettolosamente le tradizioni, a compiere i nostri piccoli gesti abituali, a testa bassa, chiusi nel nostro dolore, cullati dai ricordi, indifferenti a tutto quanto vi è e vi accade intorno, convinti della normalità dei nostri atti folli ed incapaci di cercarvi la meraviglia. A maggior ragione quando si tratta di luoghi come i cimiteri, ne stiamo volentieri alla larga tanto fisicamente quanto col pensiero, un camminare imperturbabile, un agire meccanico.

Eppure, molti di questi sono ricchi di significato e se interrogati sanno rivelare profonde verità.

Un fruscio insignificante e uno sguardo fugace bastano a scorgere un timido ed infreddolito scoiattolo che scorrazza ignaro, guardingo e frettoloso fra le tombe del cimitero fermandosi sulla scolpita e consunta lapide di un certo Angelo B. con la lunga e folta coda che ne nasconde la fotografia. Ecco, basta uno scoiattolo che si pettina il pelo in cima a una lapide per strappare un sorriso, risvegliare i sensi, schiaffeggiare la coscienza e spalancare i sensi schermati di protezione.

Angelo B deceduto ventenne nel 1959 l’amore ti diede la vita la promessa di un sogno, l’inaspettato tramonto calava su di te, trasformando quel sogno in eterno riposo.

Accanto al giovane Angelo B, Giulio B, il padre, tumulato da poco.

Giulio deceduto novantenne disprezzo l’età passata/ ho odiato le avversità della vita non credo al bene dell’aldilà unisco il mio amore ai vicini ricordi.

Parole tremende in cui vibra il dolore senza speranza.

Di storie e di nomi se ne leggono tanti, brandelli di vite più che scivolate o fuggite, sospese.

Un’epigrafe funeraria letta altrove recita così: “Le persone non muoiono restano incantate

Sono pienamente d’accordo.

Nelle iscrizioni tombali sono concentrate le storie più vere raccontate da chi resta per onorare l’amore, gli esempi di vita.

DOMENICA G. 1930 sentì e visse la poesia della famiglia, la gioia dell’onesto lavoro la bontà vera che si diffonde su tutti/ Meritò la schietta benevolenza che si deve ai migliori/ la vita serena che è premio e riposo agli operosi.

Suggestioni rimaste impagliate tra fredde lapidi e snelle croci per scoprire nelle scritture incise tra le tombe la forma e l’intensità dei sentimenti passati che hanno accompagnato la volontà di coltivare e preservare la memoria.

Il cimitero è come un polveroso archivio… in luoghi di carte chiuse in plichi ingialliti trovi lastre sottili di pietra, immensi romanzi che si sfogliano in punta di dita come pagine di un libro da accarezzare che durante la lettura ti fanno immedesimare e versare lacrime.

Persone che diventano personaggi…

Figli che piangono madri e padri, padri che piangono figli e mogli, storie di terribili morbi e di guerra, orfani e poeti, innamorati congiunti in eterno, chi si rassegna alla pace dei cari e chi prega invece perché questi “erompano dal marmo” e tornando alla vita rincuorino coloro che sono rimasti soli. E proprio come i buoni romanzi attraverso la finzione sulle lapidi incontriamo così i nostri valori, in quelle piccole storie troviamo la vita, ciò che ci commuove: l’amore fedele, l’umiltà e la carità, la famiglia, l’orgoglio del professore, del farmacista, del soldato, del notaio, dell’artista.

E sono testi bellissimi, dove tutti sono eroi ed eccezionali, pieni di sorprese e strane coincidenze che fanno riflettere.

Il ricordo è fragile.

 Fiori appassiti mesi fa, nomi cancellati su targhe divorate un po’ da chi ha dimenticato e un po’ dall’umidità, smerigliate dal tempo, croci senza date, morti senza volto, candele spente e arrugginite e posti vuoti nelle tombe di passioni morte prima del tempo. Sono innumerevoli le tracce dell’assenza in luoghi come i cimiteri, e ci costringono ad accettare l’ingiustificata l’innocenza di chi dimentica. Se all’apparenza essi sembrano luoghi della memoria, questa memoria di fatto rimanda ad una infinità al tempo stesso virtuale e vera di cose forse mai accadute, solo sognate, immaginate, forse mai sapute, forse segrete e di tante altre dimenticate.

Appena vedo la signora Verduzzi entrare decisa, a passo di carica dall’ingresso principale, scendo di scatto dalla scala e afferro la scopa, perché so già come andrà a finire…

La signora Verduzzi ha perso il fratello tre anni fa, e viene a trovarlo ogni giorno. Beppe ( il custode ) mi ha detto che lavora in casa, fa la sarta, quindi immagino possa gestire il suo tempo come vuole. È una cinquantenne a modo, una donna energica, poco socievole ma molto curata, con i capelli nero corvino e gli occhiali dello stesso colore, piccola e schietta. Ogni volta che mi vede, mi squadra dalla testa ai piedi come se fossi un’aliena, e forse ha ragione.

Il mio vestire non incontra i suo gusto raffinato.

La saluto, mi saluta questo è il massimo della conversazione che tacitamente ci siamo ripromesse di fare.

Mi accovaccio silenziosamente e raduno i petali che si sono riversati sul pavimento, insieme a qualche foglia e un po’ di polvere. Lei sistema il grosso vaso di ciclamini rossi in basso accanto alla foto, che ritrae il fratello sorridente in una luce calda, forse estiva. Non guarda in macchina, ma oltre l’obiettivo, come se si stesse rivolgendo a qualcuno alle nostre spalle. Ha la fronte ampia, lucida di sole, mentre i capelli castani sono piccole ali di uccello che si aprono ai lati della testa.

Raccolgo le sterpaglie con una logora paletta, e mi rendo conto che le donne come lei sono le uniche a frequentare assiduamente un posto come questo: donne minute e coriacee, attaccate ai loro cari per senso del dovere e semplice abitudine, oltre che per vero e proprio affetto. La signora Verduzzi viveva con il fratello nella loro piccola casa natale, nella provincia di Torino, nessuno dei due si è mai sposato.  Lei si prendeva cura di lui e lui l’aiutava con i conti e spesso le faceva da modello per gli abiti maschili, tant’è che il vestito con cui è stato sepolto l’ha confezionato lei, così si racconta in paese.

Quando si vive in simbiosi, la morte di uno è anche un po’ la morte dell’altro.

Saluto con un cenno un indaffarato e rude Beppe, Beppe che mi conosce da quando ero piccola così, questo è quello che gli piace sempre raccontarmi ogni volta che mi vede. Questo e il ricordo di Nonno sono la sua risposta al mio ciao.

Beppe corrisponde all’immagine che, da bambina, avevo del capitano navale. Magari un po’ più basso e più corpulento, ma la fisionomia è quella: folta barba disordinata e capelli bianchi, occhi chiari e profondi come il mare decorati di rughe, e palpebre che si stringono, si fanno sottili alla luce del sole mentre scrutano l’orizzonte (in questo caso, una distesa finita di lapidi).

Sarebbe perfetto per la pubblicità, sopra una confezione di bastoncini di pesce.

Il vento gli spettina la barba sul viso e gli dà un portamento da vero condottiero, anche se probabilmente sta pensando solo ai danni che dovrà contare e sistemare quando la furia del vento si sarà calmata.

Ora che è passato mezzogiorno, le nuvole corrono ancora più in veloci, smascherando chiazze di sole e di ombra sulla superficie del camposanto, sulla testa delle lapidi.

Ciocche di capelli ribelli, ricaduti da una coda bassa scomposta, mi strofinano il viso, forse cercano di tenermi sveglia, mi invitano a tenere gli occhi aperti, a guardare.

Il vento è un bel grattacapo nei cimiteri: rovescia i vasi, li mette in fuga come criminali, addormenta i lumini, sparpaglia i fiori e li mischia tra loro, creandone di nuovi. Eppure, sa anche essere molto generoso con i defunti. Basta una folata improvvisa, e una tomba dimenticata da tutti si ritrova cosparsa di petali altrui, come se un parente lontano avesse finalmente deciso di ricordarla, di farle visita, di portarle un colorato e spensierato saluto.

Il vento è un sovrano giusto e illuminato nei cimiteri; ridistribuisce la ricchezza, il colore, senza ingiustificate e sentimentali discriminazioni.

Io e Beppe lo vediamo investire inclemente il cimitero a folate di intensità crescente, che fanno vibrare e cigolare le pareti della legnosa guardiola. Ai lati, i cipressi che segnano il perimetro del camposanto, arrotondandone gli spigoli, sfidano le raffiche in una prova di forza, piegandosi all’unisono, prima a destra, per poi curvare tutto a sinistra.

La luce adesso è meno intensa, nubi lattiginose si addensano in cielo, e Beppe stringe forte gli occhi esperti per esaminarle con cura e attenzione. «Quelle non bagnano» commenta convinto e schietto, tornando al suo duro lavoro… sta preparando con rispetto e rigore la nuova dimora di qualcuno.

I fiori con gli steli più lunghi si mescolano in terra, e giocano a Shangai disegnando nuove e sconosciute geometrie; i petali si staccano in sciami di insetti irrequieti e colorati, poi s’incollano al marmo delle lapidi e donano bizzarre capigliature carnevalesche alle sbiadite foto dei defunti. I lumini, però, sono i più irrequieti e vivaci: leggeri ed elastici, rimbalzano come timide palle rosse sulla ghiaia con scarti improvvisi, gareggiano come galline dalle zampe corte e agili che non vogliono farsi catturare. I vasi di metallo, o quelli appesantiti dalla terra, fanno poca strada girano su se stessi come goffe trottole in mani inesperte, arrestandosi contro le tombe vicine.

Pia P. (+ 1999) Sulla sua lapide è incisa questa parola dolce, semplice e gentile “Grazie

C’è un istante in cui il vento è così prepotente e violento da scompigliare gli animi, da flettere i folti e lunghi cipressi in modo innaturale, sollecitandoli oltre ogni limite: li vedo piegarsi a gancio, fin quasi a toccare il prato, come se volessero afferrare un appiglio prima di lasciarsi andare, di scappare via. Sembrano implorare l’aiuto della terra che li ha ospitati e cresciuti. Ma dura poco, giusto l’attimo di un paio di folli e spietati inchini. Quando la forza si attenua, gli alberi si rialzano e recuperano la loro naturale compostezza, limitandosi a salutare con i folti rami tra una brezza e l’altra.

Raggiungo la lapide della bisnonna Cristina, guardo la sua foto e penso che vorrei sistemarle un fiore tra i suoi perfetti e ordinati capelli, nascondendolo in quell’acconciatura da signora che stempera un viso serio ma dolce. La guardo, la studio, la interrogo, mi assomiglia? C’è qualcosa di lei in me o ne porto solo il suo bellissimo nome?

Penso che sì mi sarebbe piaciuto conoscerla, lei rivive in me solo attraverso i luminosi racconti di papà, nell’austerità delle statiche e inespressive foto in bianco e nero, vive nelle pagine della mia vita solo nel ricordo tramandato ma è lì, presente, forte, necessaria…

Sistemo meglio il mazzo di fiori, lo ancoro, in modo che i petali le sfiorino la testa come una corona. Il crisantemo lilla vibra nell’aria inquieta del tardo pomeriggio, mentre il piccolo fiocco verde smeraldo si dimena sul suo letto di marmo.

Resto a guardarlo finché un ultimo soffio di vento non lo riordina.

È in quel momento che capisco di dovermene andare … di tornare a celebrare la bellezza della vita per commemorare con il dolce ricordo la morte.

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