
Il velocifero – Luigi Santucci
Mentre in Borgata, al numero 3, da un cielo grigio a tratti nebbioso, con volteggiare leggero, un nevischio di zucchero cade a ricamare di bianco nodose braccia di legno e io me ne sto tranquilla nella mia casetta di montagna cucinando poco, scrivendo molto e leggendo ancora di più.
A casa è giunto un libricino dalle 351 pagine uscito per gli oscar moderni Mondadori in prima edizione, nel 2018, che ha il gradito titolo di “Il velocifero” e l’autore è Luigi Santucci.
Il libro, selezionato come lettura di gennaio – febbraio per il gruppo di lettura #UPSILAMBA – ALLA RISCOPERTA DEL ‘900 italiano, è arrivato in una busta composta, piena di carta e di aromi, quelli delle gustose e pregiate tisane, inserite con premura, per augurare al futuro e sconosciuto lettore una buona lettura.
Il profumo della stampa cattura l’olfatto e l’adorabile ed inconfondibile sentore delle pagine rispettate, lette e rilette che odorano di storia, di vissuto, di vita, di biblioteca altrui, di cartone, di salsedine e di dolce malinconia penetra l’animo.
Le dita accarezzano delicatamente la copertina e sfiorano austeri volti a bordo di una diligenza, costeggiano i confini del dorso salmonato mente gli occhi corrono al retrocopertina per assaggiare brandelli di trama.
Un battito di ciglia e scivolo tra le pagine:
” <<Per tucc i Sant, mantell e guant”>> disse Marietta sollevandosi con una bracciata d’indumenti di lana. Era fatta di due donne incollate per errore una sull’altra: dal deretano enorme spuntava un torace ossuto senza poppe, e un collo e due braccia legnosi. Rovesciò tutto sul letto e stette a guardare, soffiando per lo sforzo, dai suoi tondi occhi di foca ammaestrata. Erano maglie felpate di color bigio o senape, culottes a gambaletto e mutande coi legacci al malleolo, pancere, calze e scialli che avevano dormito il loro letargo nel buio ventre di Epaminonda, l’armadio di noce massiccio, e ora rivedevano la luce sprigionando il salato odore della canfora. In molte case milanesi come quella di Viale Monforte, al 5, avveniva in quei giorni il cambio della guardia. Sulle tappezzerie morivano le ultime mosche e l’estate, coi suoi ventagli e parasoli, andava ad acquartierarsi nei pochi metri cubi d’una cassapanca, fra guancialetti pieni di spigo tritato. Nei cortili dei benestanti, i carbonai, incappucciati da sacchi di juta, scaricavano ceste di antracite o coke giù dai boccaporti delle cantine che esalavano un mucido freddo sulle caviglie dei passanti; e il casamento era pieno dei loro passi strascicati e del frenare allegro del carbone nelle viscere della casa. Marietta gettò sul letto un secondo mucchio di lanerie e alcune pallottole di naftalina rotolarono sul pavimento …”
È la tradizione vivida, vivace e colorata del cambio autunnale di guardaroba che nel capolavoro di Luigi Santucci apre uno squarcio sulla Milano della Belle époque in un romanzo familiare pieno di personaggi e accadimenti piccoli e grandi che grazie alla perfetta mimesi che opera Santucci ci delizia e ci irretisce.
Emblema di questa densa e articolata ‘saga’ è il velocifero, ossia ‘la diligenza per viaggi celeri’ che si sgretola fuori uso nel cortile del Cascinone.
Col suo nome saettante e orgoglioso e nel vero così decadente diventa la metafora del viaggio nel tempo e nella società di una Milano che rappresenta l’Italia al tramonto della civiltà contadina mentre la Belle Époque accende le prime luci della futura metropoli.
Una giostra di emozioni, seminate tra le pagine, disperse tra la musicalità delle parole, tra la potenza delle immagini, trascina il lettore ad esplorare, ad interrogare e ad indagare l’umanità, a confrontarsi con un variegato ventaglio di valori a lei intrinseci…
Un eccitato e spontaneo trasporto per l’altro che divampa in un rapporto d’amicizia che da curiosa e semplice affinità si accresce fino a siglare una fratellanza di sangue, un patto per la vita per poi cadere e sprofondare, a cospetto dell’innata malvagità degli uomini, per colpa di una intrinseca debolezza umana, di una naturale predisposizione all’imperfezione, nel dolore sordo dell’odio trattenuto a stento, in un scottante desiderio di vendetta destinato a non concretizzarsi mai, a non mutare in azione o in fatto.
La calda e onesta solidità degli affetti di una accogliente famiglia, che manca di quella forza, di quel coraggio, di quella spinta sufficiente a scardinare silenzi, rivelare taciuti segreti e vincere radicati egoismi.
Il valore del sacrificio personale, la nobile bellezza della lealtà accompagnata alle persone e alle idee.
E infine l’amore, che si respira ovunque tra le pagine ma che rimane inafferrabile e sfuggente, come un bambino in continuo movimento non si concede all’obiettivo della macchina fotografica finendo per ridurre ogni scatto a un confuso incrociarsi di abbagli, di grigi, di linee sfuocate e passaggi d’ombra.
Temi forti, dunque: la morte, l’amore, il perdono, la colpa, l’identità, la santità esplorati sotto la lente d’ingrandimento di un occhio religioso attento ed equilibrato ma che toccano l’esperienza di vita se non di tutti, di molti.
Se il racconto ci parla di un ambiente ormai distante da noi, l’aspetto valoriale, gli echi familiari, le vicende e il ritratto interiore ed esteriore che lo scrittore riesce a restituirci dei suoi personaggi ce li avvicina e ce li rende partecipi come pochi scrittori sanno fare.
I motivi dell’infanzia e della gioia sbocciano in un affresco Milanese di grande rispiro …
Le grandi case della Milano più bella e poetica, gli oggetti e i riti delle stagioni e delle usanze, sia in campagna che in città scanditi dalle feste religiose, la Milano delle campagne a ridosso della città, non ancora diventata metropoli, in quella periferia che ancora assomiglia ai paesi e alle contrade disseminate verso i laghi e le montagne. La vita scolastica, le luci della Scala e delle vie del centro, con i grandi palazzi ricchi di vita e di storie, come la casa della famiglia protagonista del romanzo, una grande famiglia composta da padri, madri, zii, domestiche che sono ad ogni diritti membri dello stesso nucleo familiare, cugini, amici, cani, gatti, canarini, persino una scimmia e un pappagallo.
“A ottobre l’anno scolastico odorava di cartoleria, di orso e di polvere da sparo: si può confonderlo per qualche settimana con un’eccitante partita di caccia, ha il buonumore e l’ottimismo d’un treno di volontari in partenza per una guerra mezza vinta. Ma passare le vacanze dei Santi e dei Morti, l’anno scolastico cambia odore e prende quello di naftalina e di catrame delle grandi partenze. Sfumata la falsa euforia del primo mese, col pettegolo ritrovarsi fra i compagni mutati di pettinatura e di voce, con l’arrembaggio ai posti strategici vicino all’amico del cuore o al compagno bravo in traduzione, coi libri intonsi e i vergini quaderni inaugurati dal baldo proposito da preservarli da ogni macchi e scarabocchio; consumata questa illusoria luna di miele con la scuola, si entra nel mare uggioso battuto dai libecci improvvisi delle interrogazioni e dei compiti in classe, abitato da insidiosi squali di superiori d’ogni specie- professori, perfetti, direttori – ma soprattutto interminabili: sette lunghi mesi prima che siano in vista le sponde del giugno liberatore.”
Gli echi della storia con la esse maiuscola fanno da sfondo alle vicende: dai fasti garibaldini di nonno Camillo e di nonna Margherita, ai ricordi vaghi ma risoluti delle giornate di Milano della cucitrice di casa Cherubina, fino alla Prima guerra mondiale e ai suoi orrori.
E al centro di questo vortice variopinto fatto di volti, di storia, di credenze e di personalità vibrano le esistenze di due fratelli Renzo e Silvia, il loro percorso di crescita personale e il loro rapporto imprescindibile, tenero, a tratti drammatico, capace di rimanere forte in ogni frangente, di superare l’orrore della guerra e della morte.
Le loro rocambolesche avventure adolescenziali, i primi timidi trasalimenti del cuore profumano sulla carta di favola realistica.
Santucci odora la vita, la assapora, la tocca, la possiede sognandola e nel sogno ne ricompone una verità, prima frantumata e dispersa, per dissiparla tra le pagine in un gioco ammaliante di luci e ombre.
La sua “passione umana e cristiana” per la vita Luigi Santucci l’ha cantata tutta nel romanzo capolavoro “Il velocifero” riversandola nell’universo interiore dei protagonisti portati in scena.
Personaggi della quotidianità, della semplicità, degli affetti che fioriscono tra le pagine come se fossero volti reali e che egli da grande e saggio uomo di fede riveste di nobiltà e di forma attraverso la sua prosa così alta e raffinata.
Il tutto narrato con un continuo alternarsi prodigioso del registro comico, di quello poetico e drammatico.
“La vasta mole zebrata del Monumentale si ritagliava nel cielo lombardo. Era una di quelle giornate miracolose che radunavano non proprio grembo le armonie di tutte e quattro le stagioni: al mattino i violini della primavera, a pomeriggio i flauti dell’estate, sull’imbrunire i violoncelli autunnali e calato il buio il clavicembalo ammalato dell’inverno. Il sole – uno di quei soli anarchici che dischiudono fuori stagione le uova delle mosche e fanno spegnere le stufe- pendeva sulla grande necropoli. Era un sole che sapeva di pane, di lucertole e di amorosi fienili: e lì sembrava aver ingaggiato una mitologica battaglia col cimitero per evaporarvi ogni lacrima, intiepidire il marmo di ogni croce, cancellarvi ogni vestigio di mestizia.”
Un linguaggio spesso un po’ arcaico per i giovani lettori, persino faticoso, ma basta lasciarsi prendere dal flusso del racconto, dal suo ritmo e dalla sua dolce ed appagante musicalità per ritrovare il piacevole gusto delle parole elaborate, cercate, “lavorate” come creta, pietre preziose di un tesoro nascosto.
Un gusto per la bella scrittura che oggi abbiamo quasi totalmente perduto e che è stato un piacere rivivere.
Impossibile non affezionarsi ai caratteri che la penna di Santucci dipinge con maestria d’artista, muovendosi in perfetto equilibrio lungo il margine sottile che divide la realtà osservata, studiata ed interpretata, dall’immaginazione, dalla fantasia che trascina uomini e donne al di là del proprio tempo, oltre al riso e al pianto per consacrarle all’immortalità letteraria.
Indimenticabile è il personaggio dello zio Panfilo che con il suo spirito anticlericale e filosofico fa da contraltare a quell’aria di misticismo che aleggia nelle pagine del romanzo accompagnata a uomini di religione e donne di fede.
<< I nove mesi di feto! Come me li ricordo. Una vera villeggiatura, senza noie, senza grattacapi. Son sempre più propenso a credere che il paradiso di cui parla il vecchio testamento o l’età di Saturno dei classici, siano niente altro che il simbolo di quei nove mesi di vacanze uterine. Ah, quella era vita, mia cara… Qualunque desiderio, qualunque capriccio, senza la fatica di parlare lo trasmettevo a mia madre, e tutti si precipitavano ad accontentarmi. Volevo le ostriche di Ostenda, volevo le fragole in gennaio o i mandarini in agosto? Ma subito! Quel povero impiegatello di mio padre, pur di non avermi con una voglia d’ostrica sulla fronte correva nei negozi di primizie. Quanto mi ci divertii.. E se mi vollero cavar fuori, dopo quasi dieci mesi, occorsero tre medici e il forpice. Mi sono battuto come un leone. Difendevo la mia vocazione che era quella di feto.>> [ …]
<<Sciacalla di neonati…>>
A lui si contrappongono i veri protagonisti del romanzo, i due fratelli Renzo e Silvia descritti nella loro genuina ingenuità di adolescenti e, dopo, nella loro complessità di giovani ed inesperti adulti alla ricerca di un senso dell’esistenza.
<<Crisante vieni su con la merenda.>>
<<Sì Daria, aspettami.>>
Quando salivano sul carrozzone Renzo e Silvia usavano i loro nomi di battaglia. Così s’erano ribattezzati tra loro […] Si chiamavano a quel modo quand’erano sicuri che nessuno li udiva, per certe conversazioni segrete e un po’ pazze da cui volevano escludere il mondo e insieme il loro quotidiano. Quei due curiosi nomi sbocciavano tra i fratelli come una parola d’ordine del sangue per dare il passo allo confidenze più peregrine […]
<<Ma credo che non avrei obbedito>> ripetè Renzo.
<<Vedi, fà conto che noi fossimo stati ai tempi del diluvio. E che Dio ci avesse ordinato di lasciar annegare lo zio Panfilo che non va in chiesa. Tu cosa avresti fatto? Vuoi più bene a Dio o allo zio Panfilo, Daria? Dio ti fa ridere? Mai ti fa ridere. Lo zio Panfilo invece..>>
<<Dio faccio fatica ad immaginarlo. Ma se penso a Gesù dopo Natale, gli voglio più bene che allo zio Panfilo.>>
<<Allora tu lasceresti affogare lo zio?>> disse Renzo <<Prova ad immaginarti lo zio Panfilo affogato che galleggia; e noi sull’arca, belli, asciutti.>> […]
<<A proposito: chi è Noè nella nostra casa?>>
<<Il nonno Camillo>> rispose Silvia senza esitare.
Il velocifero …. L’arca di Noè, la grande illusione infantile naufraga sotto il diluvio trascinando i suoi personaggi verso destinazioni diverse.
Gli orizzonti dorati dei protagonisti Renzo e Silvia si intorbidano dapprima per la morte del nonno Camillo poi per la delusione sentimentale di Renzo ed infine per il tracollo finanziario del padre con la conseguente dispersione della famiglia.
<<Tutti lo avevano tradito: chi col morire, chi lasciandosi portar via dal proprio demone stolto. Nessuno aveva capito che bisognava vivere, restare dove si era felici: sbarrare la porta alla morte e alle passioni, fermi in una inflessibile congiura. >>
Solo Silvia aveva capito: ma in quelle settimane anche parlare con lei era impensabile.
Così i due fratelli, giovani adulti, protagonisti delle ultime battute del romanzo prendono vie che non si sarebbero immaginati da ragazzi: Silvia nella cella di un convento e Renzo nelle trincee di filo spinato del Carso con una pagina tra le più commosse della letteratura in prosa sulla Grande Guerra tra baionette e mitragliatrici con tanti, troppi «morti dentro i tubetti» di cartucce nei caricatori.
E quando il soldato viene gravemente ferito, alla vigilia di un permesso e della fine del conflitto, sono proprio Marietta e i giorni autunnali in cui a casa si fa il cambio guardaroba a riportarlo alla purezza e alla gioia dell’infanzia perduta.
La fine si fa inizio e la festa del vivere ricompare!
“Nessuno di quanti a Renzo premevano mancava all’appello [ … ] Dalle sponde verdi del tempo adesso tutti approdavano a lui in un grande ritorno. Vivi e morti parenti e compagni, servi e gatti, e uccelli facevano ressa sul suo letto di scampato.”
Come definire questo raduno surreale? Santucci non esita: il raduno dei Santi.
“Poiché, che voleva dire essere santi se non questo: essere nati, essersi incontrati nel gioco meraviglioso della vita, aver riso insieme?”
La teologia scuoterà il capo mentre il cuore, e la fantasia sorridono.
È un finale struggente tra senso di perdita e bisogno d’amore a dimostrazione che la scrittura può riconsegnarci intatta la storia e la sofferenza della società anche raccontando di una sola famiglia, perché «casa mia può sostituire il mondo e il mondo non può sostituire casa mia».
Lo scrittore Milanese offre una narrazione equilibrata e dosata, coglie pagliuzze di malinconia dentro lampi accecanti di allegria nell’avventura quotidiana dei suoi protagonisti, sottolineando l’altalenante rapporto tra bene e male, vizio e virtù, ingenuità e sfrontatezza senza togliere respiro e voce al dolore che coglie e lambisce un po’ tutti i personaggi.
Luigi Santucci con queste meravigliose pagine esalta il piacere della vita pur nella sua sofferta e incompresa problematicità convinto, da scrittore capace di illuminare il dolore della separazione e del cambiamento, che le parole siano tutto e il resto mediocrità.
AUTORE: Luigi Santucci
GENERE: Narrativa
EDITORE: Mondadori 2018 ( collana Oscar Moderni ) – Prima edizione Oscar Mondadori 1967
NUMERO DI PAGINE: 351
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