Addio alle armi
RECENSIONI

Addio alle armi – Ernest Hemingway

Mentre leggevo “Cecità”, qualche mese fa, riflettevo sul fatto che mi mancano davvero moltissimi libri considerati “classici”, quelle letture ricche, profonde e imprescindibili che tutti, prima o poi, dovrebbero fare per avere le misure del mondo e della sua storia, letteraria e non solo.

Per questo motivo ho deciso di mettermi d’impegno e iniziare a colmare qualche lacuna.

Ernest Hemingway è morto nel 1961, a sessantuno anni. Ha scritto molti romanzi, alcuni molto celebri, e numerosi racconti. Ha vinto un Pulitzer e un Nobel; infine, si è tolto la vita.

Io, allo scoccare dei trentun’ anni, non avevo ancora letto un suo libro.

Neppure uno.

Il motivo? Forse perché come lettrice lascio molto a desiderare.

E non mi conforta la famosa frase di Troisi indirizzata al mare magnum dei libri: “voi siete tanti, io sono uno”.

Insomma, di Hemingway non avevo ancora letto niente.

Tra i miei difetti di gioventù, credo di poterlo dire con certezza, c’era la tendenza a lasciarmi influenzare troppo dalle opinioni altrui, dalle critiche. Ad esempio, da quella che mi capitò di leggere attorno ai quindici anni, non ricordo dove, a proposito di Hemingway. Il giudizio nei suoi confronti non era lusinghiero: un conservatore, maschilista, dedito al culto della vigoria fisica applicato a una mentalità di stampo colonialista.

Non proprio quello che andavo cercando nel mio adolescenziale, prematuro e disperato tentativo di spuntare caselle sulla mappa sterminata dello scibile letterario.

Ci sono libri che raggiunta l’età adulta trasmettono un certo timore reverenziale, si ha quasi paura di toccarli e maneggiarli troppo a lungo e questo per il loro valore storico, morale o stilistico, come quando guardiamo un’opera d’arte o la bellezza di una montagna o l’acqua limpida di un mare azzurro.

Ecco come mi sono sempre raffigurata l’eternità: un processo emozionale sopravvissuto nei nostri ricordi.

Come è stata anche questa lettura di “Addio alle Armi”, una lettura forte ed emozionante che mi ha accompagnata durante le prime fiammate di luglio.

La sua è una storia d’amore e di guerra, sospesa tra fantasia e realtà, all’interno della quale emergono tutti gli elementi che caratterizzarono la vita di Ernest: ossessione per la morte, coraggio, sfida e amore.

Inizia tutto nel 1917, quando Frederic Henry, giovanissimo tenente americano, decide di arruolarsi come autista per la Croce Rossa USA, e si trova quindi a fare da sostegno alle forze Alleate sul fronte austriaco.  Nell’ambito di questo tragico scenario, il protagonista, inaspettatamente, come un fulmine conosce Catherine Berkley, infermiera della quale si innamora e con la quale trascorre momenti onirici, profondi, realmente sentiti.

Ciò che traspare dai primi capitoli del romanzo, è lo spirito belligerante dell’uomo, che in un crescendo di avvenimenti dolorosi andrà smorzandosi, fino a mostrare a Frederic il crudele volto della guerra, quella crudeltà che non conosce giustificazioni, in quanto animata dal solo e spietato senso di distruzione.

Si dice che l’amore salva, che porta a guardare il mondo con occhi diversi, e molto probabilmente modifica l’approccio alla vita.

Eccola, la magia che Catherine riesce a compiere.

Da questo momento, il protagonista cresce, dal punto vista umano, personale. Giunge così, alla presa di coscienza e alla condanna di ciò che di inumano appartenente alla guerra.
Gli italiani crollano a Caporetto, la ritirata ha luogo.
Sono queste le pagine più intense del romanzo, nel quale Hemingway, descrive con precisione e nei dettagli i sentimenti interiori che tormentano non solo il personaggio di spicco, ma anche tutti coloro che gli ruotano intorno.

“Se la gente porta tanto coraggio in questo mondo, il mondo deve ucciderla per spezzarla, così naturalmente la uccide. Il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono più forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide. Uccide imparzialmente i molto buoni, i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete fra questi potete esser certi che ucciderà anche voi, ma non avrà particolare premura.”

Da queste interminabili ed emotivamente potenti descrizioni, ci si trova catapultati in quella che è una fuga lenta e difficilmente controllabile dal punto di vista mentale.

Una ritirata catastrofica, un autentico collasso di regole, valori e punti di riferimento, un brulicare caotico di vite spinte dall’accanita volontà di sopravvivere che dette luogo a una diserzione di massa, a cui Hemingway non partecipò, ma che seppe ricostruire anche basandosi sulle sue esperienze – diverse ma simili – in terra ellenica.

Gli individui sembrano bozzoli sul punto di accartocciarsi, caratteri in bilico sul proprio rimosso. La cordialità nasconde malanimo, l’arrendevolezza cova un intrico astioso, la speranza è una pura formalità.

Così, la storia personale dei protagonisti diventa simbolo della storia universale del dolore e del vuoto, della distanza che c’è tra il proclamare una guerra e il farla; le ferite dei corpi diventano lacerazioni dell’anima e si trasformano in bisogno di dissentire da tutto ciò che dalla violenza scaturisce privando l’essere umano di dignità e scelta.

Amo molto questo romanzo, in realtà amo molto la scrittura di Hemingway, così asciutta, precisa, dettagliata, anche nella mancanza dei dettagli che non devono essere svelati perché il lettore, dentro di sé, li conosce e conosce bene ogni sfumatura della vita che segna lo spirito.

Difatti, i dialoghi, talvolta scarni, nella loro nitidezza descrivono una visione interiore che non può essere narrata da una sola voce poiché essa assume la forma e i suoni delle voci emotive di chi legge e che nelle poche parole trova quel non detto rivelatore di se stesso.

Così è anche il titolo che, se in italiano lascia serpeggiare soprattutto il senso della guerra, in inglese, “Farewell to Arms”, esprime un duplice significato.

Arms, infatti, non si riferisce solo alle armi dell’esercito, ma alle braccia del corpo. Un anticipo, forse, della grande tragedia finale che vedrà i protagonisti perdenti, in ogni senso.

Un romanzo che racconta storie che si ripetono e che, quanto tale ripetizione accade, lasciano ciascuno dinanzi a un vuoto profondo che nulla potrà mai compensare.

 

TITOLO ORIGINALE: A Farewell to Arms

AUTORE: Ernest Hemingway

TRADUZIONE DI: Fernanda Pivano

PREFAZIONE DI: Patrick Hemingway

INTRODUZIONE DI: Seán Heminway

NUMERO DI PAGINE: 325

GENERE: Romanzo, Narrativa, Letteratura di guerra, Realismo

EDITORE:  Mondadori 2016  (Collana: Oscar Mondadori) – Edizione con le 47 versioni del finale e i titoli valiati dall’autore

NOTIZIE: Hemingway premio Nobel del 1954, Premio Pulitzer 1953 con “Il vecchio e il mare”

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