Un'anno sull'Altipiano - Emilio Lussu
RECENSIONI

Un anno sull’Altipiano – Emilio Lussu

Non ho potuto fare a meno, terminata la lettura per motivi universitari de “La guerra bianca” dello storico inglese Thompson, di riprendere tra le mani un classico italiano della letteratura di guerra, quello di cui Mario Rigoni Stern ha detto:

“Tra i libri sulla Prima guerra mondiale “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu è, per me, il più bello”.

Impossibile non condividere il giudizio di un accreditato Rigoni Stern, scrittore di un’opera del calibro di “Il sergente nella neve”.

Per la concisione, l’assenza di retorica, la spoglia bellezza delle frasi, l’empatia che pervade le pagine e, non da sottovalutare, il filo di ironia che forse è servita al giovane Lussu per sopravvivere.

Altopiano di Asiago, Prima guerra mondiale.

Due giovani e saggi tenenti, poco più che ventenni, amici fin dai tempi dell’università, si incontrano per concordare un’azione notturna che riguarda i loro due battaglioni. Il discorso rimbalza sul comandante del battaglione del più giovane, un maggiore valoroso e talvolta anche intelligente che però non potrebbe muovere un passo senza bere mezza bottiglia di cognac.

Il cognac scorre a fiumi sull’altipiano. Senza cognac non si combatte. Senza cognac i più non sono in grado di affrontare lo stress. Terribile, da film di Bergman, la scena dell’ufficiale a cavallo che Emilio rincontra a distanza di tempo, che ormai si è bevuto anche il cervello e penzola dai rami a testa in giù come una scimmia.

Terribile l’idea che bisogna non essere in sé per andare incontro alla morte.

Il cognac è un ingrediente essenziale della guerra, appena lo sente nominare, il tenente più giovane (l’altro è astemio) ne beve qualche sorso dalla borraccia, e riflette: nell’Iliade e nell’Odissea si bevono in continuazione otri di vino, ma non c’è traccia dei liquori. E invece – continua mentre i due amici si accendono una sigaretta – se Ettore avesse bevuto del cognac, «forse Achille avrebbe avuto del filo da torcere…».

Il più anziano dei due immagina Ettore «slacciarsi, dal cinturone di cuoio ricamato in oro, dono di Andromaca, un’elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille».

La trincea non è il luminoso campo di battaglia in cui si muovono i personaggi degli studi dell’autore, Achille, Ettore o gli eroi dell’Orlando Furioso; è, invece, un luogo inospitale, in cui le giornate trascorrono nella totale impotenza, nell’attesa di un attacco e nella speranza che la sortita sotto il fuoco nemico sia evitata.

E poi accade qualcosa. Scrive il più anziano, che narra in prima persona la sua guerra sull’Altipiano:

“Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo il mio amico sorridere, fra una boccata di fumo e l’altra. Dalla trincea nemica, partì un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli piegò su sé stesso, e cadde sui miei piedi. Io lo raccolsi morto. La notte, mettemmo i tubi di gelatina.”

Il tenente “più anziano” è Emilio Lussu, che in “Un anno sull’Altipiano” racconta uno dei suoi tre anni e mezzo in prima linea durante la Grande guerra, quello passato appunto sull’altipiano di Asiago tra il giugno 1916 (quando la sua brigata Sassari viene mandata come rinforzo per rispondere all’attacco austriaco, la cosiddetta Strafexpedition, la «spedizione punitiva») e il luglio 1917, quando la brigata ritorna sul Carso.

Questo episodio tragico e indimenticabile non occupa nemmeno due pagine del romanzo-memoriale.

Mettono le parole in trincea, i sardi, quando scrivono, sembra le espongano come il profilo spoglio delle loro montagne, quelle su cui sono stati girati tanti western all’italiana.

Penso ad Atzeni e Lussu, ieri, a Fois oggi.

Le frasi di questo romanzo sono appuntite come le baionette dei soldati che sull’altipiano di asiago cercano di contrastare l’offensiva austriaca. Nude e aspre come le rocce del carso dove la Brigata Sassari ha combattuto finché non è stata trasferita in Veneto, subito prima dell’estate del ’16. Guardinghe e disilluse, come i soldati semplici mandati a morire per l’ottusità di superiori colpevolmente orgogliosi, drammaticamente inesperti (Caporetto sarà nell’autunno dell’anno successivo).

Questa nitida oggettività, questa totale assenza di ornamenti narrativi, di orpelli, questo riserbo che tiene sotto scacco sentimenti, emozioni e giudizi sono i tratti distintivi del libro di Lussu.

Lo stile è quello scarno di una notazione diaristica, cadenzato da una punteggiatura insistente, intromettente: frasi brevi e spezzate, capitoli corti e legati costringono il lettore a soffermarsi su ogni risvolto della descrizione di un incubo che sfugge all’umana comprensione, una realtà in cui le parole, più sono autorevoli, meno contano, come quelle dei generali che si guadagnano soltanto l’odio e gli ammutinamenti dei sottoposti.

Dopo il racconto di un fatto si passa, senza lo spazio di una riga bianca, all’episodio successivo… la guerra non concede tempo non lascia spazio, semplicemente incalza strappando vite.

È proprio questo approccio, questo giustificato e tiepido distacco a far sì che alcuni oggetti diventino protagonisti delle pagine al pari degli uomini.

Il cognac, il cui odore arriva a zaffate durante gli assalti, i tubi di gelatina esplosiva da piazzare nel silenzio della notte sotto i reticolati di filo spinato fra le trincee italiane e quelle austriache, le maledette pinze con cui bisognerebbe tagliare quei reticolati, il «pugnale viennese dal corno di cervo, trofeo di guerra», che il tenente Santini lascia in eredità a Lussu prima di essere costretto ad avvicinarsi alla trincea nemica con le pinze in mano, andando incontro al fuoco mortale delle mitragliatrici.

E la feritoia n. 14.

Feritoia n. 14 avrebbe potuto essere, anche per l’autore, il titolo dell’edizione americana del libro. La n. 14 è la migliore feritoia di osservazione del settore in cui si trova Lussu con i suoi soldati: consente di vedere fin dentro le trincee nemiche. Quando la incontriamo per la prima volta nel libro, però, si è già trasformata in una trappola mortale: gli austriaci l’hanno individuata, un tiratore scelto, con un fucile montato su un cavalletto, la tiene sotto tiro e colpisce tutto quello che si muove dietro il foro. Una vedetta è stata uccisa, un’altra ferita, e il comandante della compagnia ne ha proibito l’uso durante le ore del giorno.

Si respira con intensità l’aria fredda proveniente dai monti che circondano le trincee della Prima Guerra Mondiale, in queste pagine …. I passi incerti dei soldati sulla neve, le impronte profonde lasciate dai corpi caduti dopo le battaglie e le perlustrazioni finite male, il sapore rancido delle pallottole mischiato a quello caldo del rancio dato quotidianamente per lenire una fame infinita.

Ci sembra di vederli: contadini con il fucile in mano al posto della vanga, che lottano fianco a fianco con fatica e in silenzio, soldati stanchi ma che continuano ad ubbidire e a sparare, a rispondere agli spari e agli attacchi feroci del nemico austriaco.
Uomini, provati, da ogni punto di vista, alcuni rassegnati all’idea della morte, altri con il coraggio della speranza; altri ancora pronti allammutinamento, convinti che:

Il terribile è che hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore.

La vita in trincea, l’Autore non ce lo nasconde, mette a dura prova corpo, spirito e mente:

“Sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l’acqua agitata in una bottiglia.”

e ciò che avviene in una manciata di secondi, in pochi minuti, in quell’inferno claustrofobico con un cielo come tetto ha l’impronta dell’eternità, attimi che non finiscono mai.

E sono questi attimi a restare vivi e impressi nella memoria del lettore.

In guerra cambia la percezione di tutto: dei fatti, delle persone, di gesti, dei comportamenti, del tempo, del valore dato a un giorno in più di vita, a un’ora soltanto in più…:

“Anche adesso, a tanta distanza di tempo, mentre il nostro amor proprio, per un processo psicologico involontario, mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sembrano i piú nobili e accantona gli altri, io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Piú che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi.”
“Chi non ha fatto la guerra, nelle condizioni in cui noi la facevamo, non può rendersi un’idea di questo godimento. Anche un’ora sola, sicura, in quelle condizioni, era molto. Poter dire, verso l’alba, un’ora prima dell’assalto: «ecco, io dormo ancora mezz’ora, io posso ancora dormire mezz’ora, e poi mi sveglierò e mi fumerò una sigaretta, mi riscalderò una tazza di caffè, lo centellinerò sorso a sorso e poi mi fumerò ancora una sigaretta» appariva già come il programma gradito di tutta una vita.”

“J’ai plus de souvenirs qui j’avais mille ans” cita Baudelaire, in esergo, Emilio Lussu.

Quando una trincea è uno scavo improvvisato e individuale, quando l’istinto si rivela la sola arma di sopravvivenza, quando il ricordo è vivo e genuino come nel momento in cui la situazione lo ha prodotto.

Nessuna mediazione né psicologica né letteraria abbellisce il ricordo.

Emilio Lussu, politico e reduce di guerra, con questo libro ha scritto il canto impietoso di un’intera nazione figlia dei suoi imperfetti equilibri storico-politici.

In queste memorie scritte nel 1936, lo scrittore analizza, tratteggiando con perizia i profili caratteriali dei personaggi descritti, l’assurdità con cui le alte gerarchie militari dell’epoca gestirono la vita al fronte dei propri soldati, arrivando a perdere il contatto completo con la realtà della guerra per saziare il proprio insano egocentrismo.

La guerra fa maturare avversione rispetto alle proprie fisime intellettualoidi e un passaggio dal puro interventismo intellettuale al pacifismo necessario.

Emerge un giovane appartenente alla Brigata Sassari, consapevole dello strappo temporale che la guerra ha prodotto nella sua esistenza, lui appena laureato e in virtù della sua cultura già graduato. Un ragazzo, ancora, ma con l’atteggiamento maturo ed equilibrato che solo un uomo può avere. Abile intermediario, coglie tutte le debolezze umane nei soldati e negli eventi.

 Ciò che è stato brutto, brutto rimane, così ciò che si è potuto apprezzare, nella sua bellezza, bello rimane.

Talvolta l’orrore sfuma in umorismo nero…

Nemmeno la guerra cancella l’ironia nel ricordare episodi comici ai limiti del grottesco. E ci si può ritrovare a gioire come un soldato felice per una gentile concessione che il Fato rispedisce subito al mittente o a capire l’umanità bizzarra, espressa in trincea, che per un’assurdità si è ritrovata a interpretare l’assurdo che è in ogni guerra.

Il libro di Lussu ha il valore infinito del ricordo e della testimonianza, la gravezza della coscienza del sopravvissuto che ha provato le più grandi devastazioni del secolo scorso.

È un lungo e tortuoso percorso nell’animo umano, un viaggio appassionato nella storia dei nostri luoghi e della nostra memoria, un monito per il presente e il futuro.

“Un anno sull’Altipiano” ha il pregio delle narrazioni storiche di saper entrare nella storia e di uscirne portando non dati e statistiche, ma umane e tragiche verità.

 

AUTORE: Emilio Lussu

INTRODUZIONE DI: Mario Rigoni Stern

GENERE: Memoir, Narrativa di guerra

EDITORE: Einaudi 2014 (collana Einaudi tascabili.Scrittori)

NUMERO DI PAGINE: 212

NOTIZIE: Emilio Lussu ha scritto “Un anno sull’Altipiano fra il 1936 e il 1937 in un sanatorio di Clavadel, sopra Davos ( Svizzera ) grazie all’insistenza di Gaetano Salvemini. Scritto nel 1936, apparso per la prima volta in Francia nel 1938 e poi da Einaudi nel 1945, questo libro è ancora oggi una delle maggiori opere che la nostra letteratura possegga sulla Grande Guerra. “Un anno sull’Altipiano racconta gli avvenimenti nei quali tra il giugno 1916 e il luglio 1917 venne coinvolta la Brigata Sassari – 151° e 152° reggimento di fanteria – quasi tutta composta da soldati sardi. Lussu all’inizio di queste vicende, era tenente aiutante maggiore in seconda del 3° battaglione del 151°.

Acquistato usato alla manifestazione torinese Portici di carta.

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