Il sergente nella neve
RECENSIONI

Il sergente nella neve – Mario Rigoni Stern

Tra le diverse esperienze formative che si può avere la fortuna di sperimentare da piccoli, tra i silenziosi ed ospitali banchi di scuola di un piccolo paese di montagna a 800 metri di altezza, ve ne sono alcune così uniche e preziose che finiscono per diventare parte del nostro vissuto al punto che le si porta generosamente con sé per tutta la vita. Con Mario Rigoni Stern per me è andata proprio così. A lui, infatti, devo moltissimo come persona, come montanaro, come insegnante e scrittore. Al pari di molti studenti delle medie della mia generazione, classe ‘90, conobbi “Il sergente nella neve” a scuola, all’età di 11 anni grazie all’appassionata professoressa di italiano che ci lesse alcuni passaggi accuratamente selezionati in quei giorni di neve in cui al suono d’ingresso della campanella erano solo i figli dei veri montanari ad affacciarsi imbacuccati e gocciolanti sulla soglia dell’aula.

La solenne lettura, in quell’atmosfera ovattata da favola, mi fece da subito avvicinare e affezionare in maniera particolare allo scrittore di Asiago e quando leggevo le pagine di quel piccolo romanzo travolgente mi commuovevo maturando parola dopo parola, pagina dopo pagina, nuovi sentimenti che a quella giovane ed inesperta età avvertivo in tutta la loro potenza ma che ancora non riuscivo ad afferrare e cogliere del tutto.

Il mio percorso di lettura era irrimediabilmente segnato.

Dalla fornita e disordinata biblioteca scolastica, un gentile prestito della raccolta e intima biblioteca di paese, lessi diversi suoi libri, uno dopo l’altro, li divorai con golosa voracità e reale interesse.

In quei mesi crebbi insieme a loro considerandoli alla stregua di amici veri, quelli fedeli e leali sui quali si può sempre contare per ottenere un buon consiglio, una parola di incoraggiamento, per affrontare la vita con spirito rinnovato, più consapevole, certamente meno superficiale e più profondo.

Una piccola porta di accesso al misterioso mondo degli adulti.

Con il tempo diventai una ragazza e poi un’ adulta fatta e finita con un “sentiero” di crescita alle spalle nel quale le opere di Rigoni sono sempre state ben presenti nella mia mente, regalandomi di volta in volta riflessioni, idee, spunti e domande.

Sì, domande, perché i libri di Rigoni mi hanno insegnato soprattutto questo: coltivare il dubbio e diffidare di quanti credono di avere le risposte in tasca, prêt-à-porter e di quanti scelgono comode scorciatoie a ogni occasione possibile.

Mi ha insegnato a restituire la massima dignità alla fila degli ultimi.

Pagine e pagine impresse nell’animo delicato ed innocente dell’infanzia meritano una rilettura e una riscoperta nell’età adulta ed ecco che mi ritrovai tra le bancarelle di un mercatino a ricominciare là dove tutto ebbe inizio…

Inizio a rileggere “Il sergente della neve” in una vecchia e vissuta edizione Einaudi del ’62, seduta in terrazza, in una torrida giornata di fine estate, già le prime righe mi riportano in quell’altrove che ricordavo e il racconto dell’alpino Mario Rigoni Stern, scritto da prigioniero di un lager poco dopo la ritirata di Russia nel gennaio del ’43, mi ritorna subito vivido tra le pagine della mente.  

Mi rapiscono il ritmo e l’autenticità del resoconto, il linguaggio rude, vero, vivo e privo di enfasi, l’accecante candore dei personaggi.

Riprende a risuonarmi in testa la vivace musicalità del dialetto italiano del Nord mescolato a poche e asciutte parole russe evocate per dare un volto inconfondibile al paesaggio e ai luoghi.

Il racconto, prima della guerra in trincea nel caposaldo e poi della ritirata a piedi migliaia di chilometri, attraverso la steppa Russa, colpisce al cuore, lo trafigge…

Incalzati dal nemico nella “sacca”, i soldati si trovano catapultati in un territorio ostile, desolato e devastato dalla battaglia, fatto di fango, neve, ghiaccio, nulla e poi boschi, infiniti boschi di betulle bianche interrotti da colonne di fumo nere di villaggi in fiamme. Poche, povere “Isbe” rimaste in piedi, incolumi, abitate da donne, vecchi e bambini nascosti ed impauriti come topi regalano attimi di tregua e ospitalità a truppe allo sbando.

Italiani e Russi, soldati e civili, tutti, indistintamente si ritrovano accumunati dallo stesso destino: sopraffatti dal volto più duro della guerra, annegati nel tormento della fame, della fatica e del freddo. Unico motivo per resistere è l’anelito di tornare a casa, ritornare alle care e miti vite di semplici montanari pastori o contadini, evocate nel ricordo annebbiato dei soldati, assaporate in quel barlume di utopica speranza.

Giovani ragazzi strappati dalle baite natie e dai pascoli verdi degli altopiani alpini con le mucche e i muli, la polenta e il latte appena munto, la pastasciutta, la camicia bianca pulita della domenica il vino all’osteria e le fidanzate giovani e belle. Ridotti ora come spettri coperti di stracci coi talloni e le dita dei piedi in cancrena e perduti nell’inferno ghiacciato della steppa russa.

Rigoni racconta una generazione di uomini semplici, fatti della concretezza del duro lavoro, della terra dei loro luoghi e del loro quotidiano, una generazione giovane ma solida, responsabile, mandata allo sbaraglio in una guerra lontanissima che li incalza. 

Fame, freddo, paura dolore e nostalgia, sfinimento si alternano a ritmo cadenzato tra le pagine, sui soldati e dentro di noi, convivono con la forza di piccoli amuleti famigliari con lettere, fotografie e piccoli oggetti custoditi con cura e devozione. Tutto si mescola ai ricordi caldi e felici dei propri luoghi d’origine, agli intenti di un ritorno a casa, tutto alimenta il valore dei legami nati nella condivisione della tana, la capacità di affrontare con i compagni dolore e allegria e di incoraggiarsi a vicenda, a ogni passo che sprofonda nella neve, a ogni colpo scampato e a ogni compagno perduto.

“Sergentemagiú, ghe rivarem a baita”

 

È questo il desiderio ripetuto come un mantra che tiene vivo lo sguardo su un utopico futuro, accendendo una timida speranza.

“Dobbiamo rimanere uniti”

 

É la risposta che arriva sempre a rassicurare che il futuro è l’orizzonte oltre la neve e risiede nella condizione di rimanere uomini tra gli uomini, coesi, leali, capaci di difendersi dal nemico di combatterlo senza bisogno di umiliarlo.

Ho amato “Il sergente nella neve” che riapre il grande sipario della storia su uno scenario di guerra drammatico, impossibile da dimenticare, perché l’intensità e la profondità dei ricordi si scolla dalle pagine ingiallite dal tempo, si aggrappa agli occhi, prende vita nelle pieghe della mente e si deposita sul cuore.

La sua autenticità riesce a dare valore e significato ad ogni piú piccolo ed insignificante dettaglio e a farne la rappresentazione di un profondo sentimento etico.

Le parole del libro si aggrappano all’immagine televisiva che mi è rimasta di uno Stern giovane, dagli occhi buoni e un sorriso aperto, disponibile, allegro con un pizzetto un po’ da guascone che parla all’osteria di paese, davanti ad un buon bicchiere di vino, i modi fieramente e squisitamente popolari, un forte e spiccato accento, la camicia a scacchi e la giacca di lana pesante.

Gesticola insistentemente e racconta ancora una volta la sua storia con la lingua dei montanari, proprio con la voce del “Il sergente nella neve” e i vecchi gli stanno intorno con i bicchieri e il fiasco del vino, ha il viso pulito e dignitoso, parla il giusto. Invita i giovani ad avere il coraggio di dire NO! No a chi dice di fare cose che vanno contro la propria coscienza.

“Seguite la vostra voce. É molto più difficile dire no che sì”

 

Un invito a riconoscersi nel prossimo anche in quello che viene etichettato come il nemico, a restare uomini e umani soprattutto nelle difficoltà.

AUTORE: Mario Rigoni Stern

GENERE: Letteratura di guerra, Racconto autobiografico, Memoir

EDITORE: Einaudi 1962 (collana i coralli)

NUMERO DI PAGINE: 157

NOTIZIE: Vincitore del Premio Viareggio per l’Opera prima. Dal libro è stata tratta la sceneggiatura per un film, mai realizzato, ad opera del regista Ermanno Olmi e dello stesso Mario Rigoni Stern.

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