Sangue giusto
RECENSIONI

Sangue giusto – Francesca Melandri

Un fugace ed impercettibile battito di ciglia, un brevissimo istante, un attimo e la vocale A fluisce libera, scorre limpida e netta, le labbra si serrano per far detonare il suono secco, la lingua solletica nervosa il palato per produrre un simpatico attrito e di nuovo batte contro i denti, rallenta, si ferma, tentenna un attimo, torna indietro, prende la rincorsa, accelera e le labbra si incontrano sfiorandosi … la parola è proferita: Ambaradan, am/ ba/ ra/ dan.

Un suono gioviale, giocoso che assume quasi i connotati del fiabesco, di una formula magica, invocata chissà dove chissà quando per trasformare qualcosa in qualcos’altro, per far sorridere un bambino, una sorta di “Supercalifragilistichespiralidoso” ristretto alla Mary Poppins.

Ma Ambaradan o meglio Amba Aradam è un luogo, un altopiano africano, è una battaglia, quella del 1936 dell’Italia contro l’Etiopia, un capitolo tanto mostruoso quanto celato della storia italiana e i cui protagonisti sono la disumanità e l’Iprite. Racconta questo la Melandri e riporta ai lettori un episodio ben preciso di quella storia, la strage di Gaia Zeret, tra il nove e l’undici Aprile del 1939, in cui vennero trucidati tra i 1200 e 1500 etiopi dagli invasori italiani. Narra di come alcuni ribelli e reduci civili si fossero rifugiati in una grande grotta nella regione di Gaia Zeret-Lalomedir e di come, intercettati dall’aviazione italiana, si rifiutarono di uscire dalle grotte e fu così che per stanarli, le truppe italiane calarono dall’alto, nelle imboccature degli anfratti, bidoncini di iprite. Per sfuggire al gas i nemici lasciarono il nascondiglio e gli italiani li divisero in gruppi, giustiziandoli sul ciglio di un burrone con colpi di mitragliatrice. Nel carnaio informe di visceri definirono l’operato con i lanciafiamme, orrore su orrore, per spazzare via ogni possibilità residua di vita e così di misericordia rimasta.

Sapevo che l’esercito italiano in Abissinia, negli anni ’30, aveva commesso delle atrocità; come l’uso di gas tossici, banditi dopo la Grande guerra. Tuttavia, ho dovuto ammettere: la mia conoscenza scolastica è poco più che didascalica; mi mancava un immaginario della pioggia di iprite sui guerrieri, e una geografia. La carneficina peggiore avvenne sull’altopiano dell’Amba Aradam un nome non nuovo, ma non che non collegavo all’Abissinia; e infatti, fra le pagine del romanzo, la rivelazione: da quel massacro si è evoluta la crasi “ambaradan”, con cui si descrive una baraonda, qualcosa di caotico. Quel termine, che utilizziamo spesso, fa riferimento a un campo di morte: centinaia di italiani vi persero la vita, e in 20.000 etiopi perirono fra gli spasmi.

Sarebbe bello studiare e apprendere la Storia presente e passata attraverso le persone che l’hanno vissuta, ancor prima che gli storici. Sarebbe costruttivo seguire sul campo tutti, dal più semplice ed umile ferroviere che in epoca di guerra si occupava dei convogli pieni di giovani scanzonati e baldanzosi all’andata, e di feriti distrutti con il loro forte odore di sangue, sudore e rassegnazione al ritorno. Guardare negli occhi insensibili di uno di quei “capi” che ordinava di gettare iprite sulle persone inermi, al tempo delle Colonie fasciste in Africa; un uomo con un passato, e un presente fatto di convinzioni reali e pensieri indotti.

L’occasione oggi ce l’abbiamo ed è un regalo costato ricerca e fatica alla scrittrice.

“Sangue giusto” è un’opportunità per esplorare avvenimenti del nostro passato forse poco conosciuti, appena accarezzati sui testi scolatici, poco indagati, di cui si parla ancora a bassa voce e le cui conseguenze arrivano fino a oggi.

L’epoca del colonialismo fascista è stata raccontata come un’epoca di grande civiltà, di bravi colonizzatori che andavano a civilizzare i popoli d’Africa, costruivano strade, acquedotti, creavano forza lavoro. E sopprimevano le ribellioni della popolazione occupata con il gas. Di questo si parla poco, come si parla poco di quanti con una mano scrivevano libri e manifesti sull’inferiorità della razza africana e con l’altra accarezzavano una moglie eritrea che amavano e con cui mettevano al mondo dei figli in piena clandestinità e contraddizione.

“Sangue Giusto” si colloca, di diritto, fra quei pochi romanzi postcoloniali che hanno l’obiettivo di riscrivere la storia degli italiani nel Corno d’Africa scevra dalla retorica propagandistica del fascismo. È un tema che a distanza di 85 anni di distanza permette ancora agli autori che lo affrontano esplorazioni inedite e stranianti, a causa del velo di silenzio con cui i reduci delle campagne africane hanno coperto, al loro ritorno, imprese di cui non andare particolarmente fieri una volta esaurita l’euforia ubriacante del ventennio.

Questo ambizioso e complesso romanzo mascherato da romanzo famigliare è la Storia che bussa alla porta per mano di uno dei protagonisti, Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti, nipote africano di Attilio Profeti, che si presenta alla porta di una dei figli di Attilio, Ilaria mentre poco più lontano, per le vie del centro di Roma, sfila il corteo di Gheddafi.

Passato e presente si sovrappongono terribilmente, attraverso i racconti del “ragazzo” che ha rischiato la vita cercando di raggiungere le coste italiane, stretto in un fiume di gente disperata e senza nulla da perdere, con un unico sogno: approdare in un mondo migliore, lavare in qualche modo il loro “sangue sbagliato”. Risvegliarsi da un incubo terribile che dura da decenni, da quando con la scusa di portare civiltà e decoro gli è stata tolta la dignità di esseri umani.

“Immagina questo: stai facendo un sogno meraviglioso mentre sei appollaiato sui rami di un albero. Devi svegliarti ogni minuto, però. Perché non devi cadere e anche perché vuoi tenere vivo il tuo sogno. Questo vuol dire emigrare.”

Comincia per Ilaria e per noi lettori un viaggio tra l’epoca berlusconiana e l’epoca fascista, l’era delle migrazioni e l’era delle grandi colonizzazioni. E inizia un viaggio all’interno di una famiglia indimenticabile, straordinaria (fuori dall’ordinario), quella di Attilio Profeti (nome di battaglia Attila Profeti), ormai novantenne: due matrimoni, tre figli, un passato da fascista ligio al dovere e baciato sempre dalla fortuna, cosa che gli ha permesso di non macchiarsi di crimini che andassero oltre il censurare le lettere che dall’Abissinia giungevano in Italia e raccontavano la vita vera dei colonizzatori. E amante di Abeba, splendida donna etiope da cui ha avuto un figlio e poi un nipote. Un cerchio che si chiude quando il ragazzo si presenta a Roma, un cerchio che si chiude (anche se non del tutto) quando Gheddafi sfila con il suo corteo, accolto con ogni onore dal nostro governo.

 Un cerchio che a causa delle migrazioni è ancora aperto e che forse non si chiuderà mai.

Sono i personaggi il punto centrale della narrazione. L’autrice introduce un narratore onnisciente che pur non emettendo giudizi entra completamente dentro i personaggi, raccontando il loro agire in determinate situazioni, dalla più “quotidiana” alla più “grande”.

Un romanzo ha un dovere, sopra ogni altro: quello di illuminare l’animo umano, che raramente è solo nero o solo bianco.

Da questo punto di vista il personaggio di Attilio Profeti è emblematico: figlio di un ferroviere, già fascista, autore persino di un libello che condanna la mescolanza del sangue italiano con quello etiope, proprio mentre in Africa mette al mondo un figlio con una ragazza locale, in seguito si fa passare per partigiano, e scalando un gradino via l’altro, approda ad una comoda, redditizia posizione nel sottobosco della politica romana. Energico, fortunato, spregiudicato, refrattario all’introspezione, Profeti nella sua lunga vita ha sposato due donne e ha messo al mondo diversi figli “ufficiali”, regalando ad ognuno di essi un domicilio all’Esquilino. Viceversa, non ha mai riconosciuto quello avuto in Etiopia. Ma, molti anni dopo, è riuscito con notevole sangue freddo a tirarlo fuori dalle prigioni di Mengistu; ed è riuscito parimenti a “comprare” da un ministro etiope i documenti necessari ad un ex-commilitone insabbiato nel paese africano, affinché possa tornare in Italia con il resto della famiglia, cosa tutt’altro che scontata in epoca di dittatura.

Nessun personaggio come nessun uomo o donna reale è definibile, completo, risolto, sicuro; tutti hanno segreti, sfaccettature, sfumature, incertezze, dubbi, si mettono in discussione, cercano di guardare al di là della realtà che li circonda.

Ilaria è una donna integerrima, onesta, leale e incapace di compromessi. Ha dato sempre per scontato di avere un padre perbene, ma si trova a fare i conti con una realtà crudele, fuori da ogni concepibile umanità.

E ci insegna così che basta poco per non adagiarsi su una verità che si è abituati a ingurgitare: basta informarsi, leggere, andare in biblioteca ma soprattutto abbandonare i pregiudizi e guardare negli occhi la realtà, per quanto crudele e assurda possa sembrare.

Ho pensato molte volte mentre leggevo questo libro coraggioso vivo e palpitante al sentimento che avrei riversato nella recensione.

La storia è bella, il passato coloniale dell’Italia è un soggetto attraente poco frequentato, Ilaria, suo padre, il nipote ritrovato sono personaggi completi nella loro umana incompletezza, personaggi che restano addosso, impressi nella fragilità dell’animo più che tra le fitte righe delle pagine.

E’ l’Italia che non torna, descritta come cattiva, stupida, che non sa imparare dai suoi errori.

Ma come può un Paese restare fermo, mentre i suoi cittadini evolvono?

Dall’atmosfera alla “Pranzo di ferragosto”, leggera, fresca ed estiva, delle prime pagine, Francesca Melandri mi ha gettato nella più cupa realtà, mi ha costretta a lunghe pause ad occhi chiusi con la testa all’indietro, per benedire la fortuna di essere nata dalla parte giusta, io col sangue giusto, io fortunata.

Un pizzico di “Sangue giusto”, una serie di personaggi, tanta Storia, ali di fantasia, polvere di stelle…. silenzio.

Ed il sortilegio è fatto.

Come una magnifica e saggia strega, Francesca Melandri compie un incantesimo al lettore più astuto, quello più preparato, quello più incontentabile.

Lo ammaglia, lo intrappola e lo fa suo.

Finalista al Premio Strega 2018, questo libro parla sicuramente a noi di noi.

Anche se vorremmo a volte dimenticarlo.

 

AUTORE: Francesca Melandri

GENERE: Narrativa di genere (temi trattati: saga famigliare, colonialismo, postcolonialismo, immigrazione)

EDITORE: Bompiani 2021 (collana le finestre)

NUMERO DI PAGINE: 571

NOTIZIE: Finalista Premio Strega 2018, Premio Sila ’49, nominato dallo “Spiegel” romanzo internazionale dell’anno

Acquistato fisicamente a La Feltrinelli

Acquistabile online

(Ricordati, se puoi, di sostenere le piccole librerie indipendenti)

Subscribe
Notificami
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
error:
0
Would love your thoughts, please comment.x