L'anziana nonnina
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L’anziana nonnina

Ognuno di noi ha un dove magico, un luogo amico, un posto del cuore, uno spazio speciale in cui si sente a proprio agio, protetto, al sicuro. Un luogo che regala buone vibrazioni, energia positiva, vitale. Quello in cui si corre quando si ha bisogno di confidarsi, di ricaricarsi o rasserenarsi.

Il mio posto speciale è un una roccia.

Ognuno di noi ha una roccia del cuore.

O almeno dovrebbe, se proprio non è arido d’animo.

Non deve essere necessariamente la roccia più bella, quella più famosa, formosa o alta. Anzi non dovrebbe essere nessuna di queste ma solo un luogo di riparo, di riconciliazione. Una casa dove trovarsi quando si è stanchi, non si ha la voglia né il tempo di pensare.

Quando si vuole condividere qualche cosa o semplicemente stare, stare come stanno gli alberi a sventolare le fronde con i piedi a terra e gli occhi al cielo.

Come quando da bambino ti portavano dai nonni e non c’era niente di meglio che quelle ore lente e pacifiche al sapore di biscotti e caldi abbracci per sentirsi accolti e protetti.

Sarà per questo che la chiamo l’anziana nonnina, lei che nel tempo è stata tanti nomi: la Rupe, lu  Roc Dla’ Verte…

Con i fianchi larghi e le sue dorsali ricamate dal tempo con quella cupola sempre sbarbata dal vento, sembra proprio una vecchia nonna adagiata su una sedia a dondolo e avvolta da un pesante scialle variopinto e lanoso fatto di castagni secolari.

Osserva bonaria la sua valle aperta come le dita di una mano abbracciando segreti, raccogliendo pensieri, dispensando sorrisi e saggezza.

Dall’anziana nonnina si ritorna in ogni stagione, in ogni momento, in ogni ora del giorno, il segreto della roccia del cuore è proprio questo deve essere il luogo che ti accoglie sempre, come il caldo abbraccio della famiglia.

Seduta sulle sue spigolose ginocchia, accarezzata dalla brezza, guardo l’orizzonte, la fine del mio sguardo, il recinto dei miei sogni, la distanza tra me e le mie paure, quella linea sottile tra il cielo e le montagne, frastagliate come i pensieri.

Colgo raggi di sole, ogni volta ne stacco uno e lo infilo in una tasca del cuore.

Lo faccio da quando ero bambina.

Alla roccia del cuore torno soprattutto per vedere, un album dei ricordi da sfogliare, su cui appendere pensieri e immagini come francobolli collezionati nel tempo, una vita da riguardare, piccoli fotogrammi da tagliare cucire e riassemblare, sommare, sottrare, divide o moltiplicare per ricostruire, reinventare.

Il rumore del silenzio arriva piano e mi avvolge come un soffice e caldo mantello.

Adoro il silenzio. Amo quei brevi e fugaci attimi pieni di nulla: nessuna parola, nessun suono, nessun rumore… solo il battito regolare del cuore, il ritmo cadenzato e tranquillo del respiro, il frusciare delle foglie, il respiro sommesso del vento. 

Null’altro.

Amo questi momenti di ascolto fatti di niente, abitati da sguardi di meraviglia, liberi dai pensieri, come fossero brevi ma eterni secondi di sospensione e di fuga. Amo quella sensazione di spaesamento che questi meravigliosi silenzi mi sanno regalare: assuefatta alla cacofonia dei suoni che mi circondano, questi minuti mi giungono come una sorpresa, talvolta dolce, talvolta violenta, ma che comunque sa zittire ansie e preoccupazioni, ovattare appelli ed urgenze, mettere in attesa frette ed incombenze.

Il silenzio, quello buono e benedetto, mi spinge a fermarmi, a spegnermi, mi obbliga a non fare nulla, a lasciare andare, a lasciare scorrere, i pensieri le cose, a far sì che esse semplicemente accadano, succedano, avvengano. Fuori e dentro di me.

Il bello di certi silenzi è che puoi solo ascoltarli, ne puoi solo godere senza pretese e aspettative. Non li puoi afferrare, non li puoi trattenere, non ne possiedi il corso, né l’inizio, né la fine. Essi semplicemente sono, accadono, come oasi insperate dell’esistenza, fatte per essere gustate nella fugacità del loro apparire.

Essi sono luoghi che ti è chiesto di attraversare con fiducia e affidamento: nulla da fare, nulla da dire, nulla da attendere o da cui fuggire.

Nulla.

Certi silenzi sono fatti proprio di nulla.

Un nulla da ascoltare, accogliere e vivere.

Ecco così dovrebbe essere il rumore del silenzio: una tua creatura, fatta di te, dei tuoi ricordi, del tuo presente, del tuo silenzio. È l’urlo che lanci. Di gioia, di rabbia, d’angoscia che riempie tutto lo spazio, rimbalza e torna indietro soffice, attutito come un bumerang nelle mani inesperte di un bambino. È un ricordo più forte degli altri del quale ogni odore, ogni rumore ti fa rivivere le sensazioni più profonde che tieni chiuse dentro di te e che mostri nei momenti speciali. È il rumore della tua mente che tric trac lavora finalmente libera dalle costrizioni sociali.

E poi c’è il silenzio con quel suo rumore-non rumore con quella perfezione che non vorresti finisse mai.

Il tempo scosso abbandona l’orologio, sospende il ticchettio, ti asseconda, si siede e aspetta paziente, gli occhi si riempiono di geometrie e colori, dipingono scorci, giochi di luci e ombre.

Si tratta di una semplice roccia però da lì si domina la valle che si apre sotto ai piedi, con quella strada in salita costeggiata da fiume e solleticata appena dal fogliame che porta alla felicità di un sì dal dolce sapore del per sempre.

Lì accanto mio nonno faceva il fieno, lo vedevo solido arrancare sotto il sole estivo, per quella riva impervia, costeggiata dal rio, con suo pesante carico sulle spalle avvolto in un vecchio e consunto lenzuolo dalle tonalità color cielo, un poco curvo sotto il peso ma con lo sguardo verso l’alto.

Lì accanto, in quel mare di erba alta che ora ondeggia incolto ad ogni colpo di vento come un lago verde appena increspato, ho osservato intere famiglie di laboriosi scoiattoli fare le provviste per l’inverno e mi sono persa nei loro frenetici giochi come davanti ad un acquario enorme, un acquario di montagna.

Su quella roccia mi sono abbandonata milioni di volte, ho abbassato le difese, alzato barriere ascoltando cori di grilli, concerti di cinguettii mentre il mio sguardo vagava oltre, là, dietro al bosco e sopra dove i miei monti possenti dalla punta al sapore dolce di zucchero a velo se ne stanno impettiti e benevoli, sentinelle del sempre.

Non c’è niente a cui non abbia pensato, da lì.

Ho pensato alla mia vita e a quello che potevo farne, quando ancora mi sembrava una creta morbida e docile da plasmare con sapienza con il soffice tocco di mani piccole e inesperte.

Ho immaginato viaggi, partenze e ritorni. Ho programmato rocambolesche fughe e mi sono riconciliata con l’idea di rimanere. Ho intuito grandi cambiamenti guardando le geometrie delle nuvole nascere dalla bocca profonda dei monti e minacciare pioggia.

Ho indovinato malumori che si affacciavano striscianti tra i miei pensieri e ho trovato le parole magiche per farli desistere.

Mi basta attraversare quell’immenso prato che sboccia ad ogni stagione, saltare sul vecchio sentiero poco battuto, immerso in un intreccio di rovi fiabeschi e minacciosi e lei è lì ad attendermi, rassicurante e solida.

Lì ho fatto i miei conti con la morte. Con quella temuta e scongiurata delle persone che amo e con quella che si è fatta presto reale. Che mi è apparsa in un’età acerba con tutto l’orrore di cui è stata capace.

Lì, sotto il castagno, seduta su quella rugosità, ho fatto pace con Dio, con quel Tutto che sotto ai miei occhi e con immensa meraviglia si trasforma ogni anno, ogni stagione, ogni giorno e ogni istante ma che rimane seppure con un vestito diverso per farmi credere che qualcosa esiste.

Che c’è sempre almeno un pensiero un odore, un’immagine che sopravvive al tempo, a ciò che siamo.

C’è un posto speciale per ognuno di noi.

Questo è il mio.

Un angolo al limite del bosco dove i colori esplodono, le geometrie si fondono, luci e ombre giocano, regalando occhi nuovi e pensieri più quieti.

Il mio angolo segreto viene con me ovunque vada.

Anche adesso che non sono più lì mi basta socchiudere gli occhi per sentire la ruvidità dell’anziana nonnina, per sentire le sue spigolose ginocchia sotto le mie dita, la sua saggezza, le carezze del vento, il cantericcio dei grilli e il profumo inebriante del fieno maturo.

Il jolly è socchiudere gli occhi e tornare lì tra le sue braccia e sentire che il mondo è un posto migliore.

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