Come d'aria Ada d'Adamo
RECENSIONI,  🖤I più amati

🖤 LA DANZA DI DUE VITE: Ali invisibili, amore, bellezza e fatica in COME D’ARIA di Ada d’Adamo

“Quei giorni di maggio quando tutto è suggerito e niente ancora soddisfatto” …

Amo questa frase colma di prospettiva del romanziere britannico Francis King che racchiude a pieno quello che per me rappresenta il mese di maggio, un contenitore pieno di rose, di luce e possibilità.

Un periodo di attese…

Maggio regala un’aria che profuma già d’estate senza le opprimenti e fastidiose calure estive, suggerisce graduali risvegli, contadini e saggi movimenti, assapora passeggiate, leggerezza, giochi e risate, vivaci sguardi di colore, inebrianti profumi di fiori e di frutti.

Cieli azzurri offuscati di nuvole che versano primaverili lacrime su prati verdi accesi di speranza, tappezzati di ondeggianti e sinuosi petali, regalano nuovi occhi, un nuovo passo, tempo e meraviglia.

Le attese danno ritmo alle pagine, significato agli spazi, seminano parole pronte a crescere, maturare e sbocciare sui terreni incolti dell’anima di quell’immenso e sconfinato campo di lavoro chiamato vita, la gravità di una esistenza.

“Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità, che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in terra quando dalla terra spicca il volo e quando alla terra torna, per cadere e di nuovo rialzarsi. Tu non sai lo splendore quotidiano dello stare in piedi, la “piccola danza” che muove ognuno nell’apparente immobilità del corpo verticale. Né immagini il mistero del peso che si trasferisce da una gamba all’altra e origina il passo. Altra è la gravità che ti riguarda: “condizione che desta preoccupazione o annuncia pericolo”. Condizione che sempre accompagna i documenti che ti definiscono: “handicap grave”, “ipovisione di grado grave”, “contributo disabili gravissimi”…

Che la terra – la vita su questa Terra – ti sia lieve, mi auguro per te, ogni giorno. E all’auspicio segue l’azione, ché solo sperare non basta.

Sei Daria, sarai D’aria.”

Parole danzano e vorticano in un incipit leggero, luminoso pronto a sprofondare nella dura realtà e a rinascere nell’amore.

C’è tanta grazia nelle pagine di Come d’aria, c’è un’umanità che risplende di luce e di bruciante tenerezza.

Ci spoglia delle nostre certezze e ci lascia sofferenti ed indifesi davanti a tanto dolore, a tanta vita.

“Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te”.

È difficile trovare le parole giuste per descrivere questa storia, sembrano fuggire.

Spiccano il volo dall’alfabeto della vita e vanno a nidificare nel vocabolario dei sentimenti di Ada e Daria lasciando spazio ad una tormentata consapevolezza, al silenzio.

E il silenzio è la dimensione del dialogo di Ada con Daria, l’unico possibile. Sono i corpi a esprimersi, in un’osmosi che incorpora la vita: la fragilità, la disabilità, le lacrime, il sudore, il moccio, i sorrisi.

“Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco per gli altri finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura”

Corpi rachitici, corpi pesanti, corpi che sbavano, corpi diversi, unici, malati, fragili.

Cadono e poi tornano a piroettare consapevoli in quell’ amore d’aria.

Avere contezza del dolore, vivere facendo la spola tra leggerezza e pesantezza.

Ada e Daria parlano così, pancia contro pancia, testa contro spalla, respirando all’unisono in un’unica vibrazione. Diventano una cosa sola, un incastro di corpi e respiri, abbracciate, con un contatto continuo, a passeggiare nel corridoio di casa, o immerse nell’acqua di una piscina, dove tutto diventa più facile, sferico, leggero, senza peso.

“In piscina senza peso, lentamente il tuo corpo perde la sua rigidità. A pelo d’acqua, butti indietro la testa e ti liberi della cuffia. Ti piace sentire il fresco nel collo, bagnarti tutti i capelli. I nostri corpi finalmente diventano uno. Ti stringo in un abbraccio che ti avvolge totalmente. Un abbraccio sferico. Non c’è più lo schienale della sedia che mi impedisce di toccare la tua colonna vertebrale, e la posizione verticale mi permette di aderire a te completamente, di sentire le tue gambe, dai piedi alle anche e poi il bacino, lo stomaco, lo sterno, su su fino al viso. Posso darti mille baci bagnati. Di te ci sono finalmente un sopra e un sotto, un davanti e un dietro, simultaneamente. In piscina troviamo refrigerio, tutto si alleggerisce, l’assenza di peso ci rende euforiche.”

Bisognerebbe potersi immergere ogni giorno in una pozza d’acqua nella quale, stretti in un abbraccio, sciogliere per un po’ il peso della vita. Poi risalire la scaletta, asciugarsi, rimettersi sulle spalle il proprio carico. << Dentro ad un abbraccio >> ha scritto Charles Bukowski << puoi fare di tutto: sorridere e piangere, rinascere e morire. Oppure fermarti e tremarci dentro, come fosse l’ultimo >>.

È un’adesione così totale, che non conosce la comunicazione verbale ma invade tutti i sensi, ed è naturale come aria: leggerla, con l’onestà e la sincerità delle pagine di Ada d’Adamo, lascia smarriti, come di fronte a qualcosa di inviolabile, sacro.

C’è il bellissimo sorriso di Daria e poi ci sono i bambini a riconoscerne la magia, quel soprannaturale che fa parte dell’amore, che non si deve capire, ma solo accettare.

I messaggi degli amici e dei compagni di scuola per Daria sono la dichiarazione più intensa.

“Per me sei luce nei momenti di buio,
sei la luna nella notte, sei la mia stella polare.
Al di là di tutto e di tutti ci siamo io e te.”

Ci vuole il fisico, per portare avanti un’esistenza di accudimento.

E quando, a cinquant’anni, le viene diagnosticato un tumore, Ada deve affrontare una rottura di equilibrio.

“Con te bisognava avere braccia forti e gambe agili, il tutto incernierato su una schiena di ferro. E velocità per schivare i pugni e i morsi involontari […] Ora per la prima volta un ostacolo, un impedimento fisico si metteva tra me e te, separava i nostri corpi. Se provavo a tenerti un po’ sulle ginocchia, seduta in poltrona, oppure chiedevo a qualcuno di sistemarti accanto a me sul divano, dovevo stare attenta che non urtassi il metallo del busto. Quando capitava mi guardavi con un’aria stupita forse ti chiedevi chi fosse questa mamma imbalsamata in posizioni rigide e statiche. Dov’erano finiti il calore e la morbidezza dei miei abbracci?”

Spostare il suo baricentro, pensando a curarsi, è uno sbandamento, uno smarrimento.

“Ora che sei cresciuta e io mi sono ammalata, l’incastro dei nostri corpi non è più possibile… Ogni malattia rompe un equilibrio […] la paura di non riuscire a prendersi cura di sé per continuare a prendersi cura di chi si ama. Se la diagnosi di tumore mi ha dato piena cittadinanza nel paese dei malati, di cui fino a quel momento grazie a te ero stata solo una cittadina onoraria, come gestire il mio ingresso nel “lato notturno della vita”?

Se volevo guarire tu non potevi essere più il mio centro, dovevo spostarmi, riposizionarmi altrove. Per sopravvivere dovevo trovare un centro mio, la cura di me. Ma come? E a quale prezzo? Non correvo forse il rischio di allontanarmi da te?

Ho trascorso mesi di sbandamento, orfana della nostra intesa, incapace di colmare una distanza che mi sembrava allargarsi di giorno in giorno. L’adesione del tuo intero corpo col mio non era più possibile e questo all’inizio mi ha spaventata, lasciandomi smarrita, priva di te.”

Il corpo che tradisce aumenta le distanze, impedisce quel contatto fisico così importante e necessario, traccia la necessità di nuove strategie di dialogo tra madre e figlia.

Pancia contro pancia, ognuna con i propri limiti, Ada e Daria, compenetrate anche nei nomi, sono un mondo a parte, un passo a due d’amore, un amore d’aria: il loro è un linguaggio di corpi, concreto, caldo, vivo.

Si chiama incorporazione, è un concetto che fa parte del mondo della danza, e Ada d’Adamo lo richiama per il suo inno al corpo come nido della memoria, per creare e trasmettere conoscenza, visiva e emotiva, per sentire insieme, in un corpo-archivio che conserva una propria narrazione.

La sua scrittura è poesia, chiara e limpida come la luce, arriva proprio dove vuole, a fare male, ad accarezzare, e al tempo stesso a raccontare che si può danzare, e continuare a farlo anche quando i passi non sono quelli che speravamo.

I danzatori e i coreografi (lei tra di loro) conoscono le leggi di ogni flusso, i movimenti di un corpo, l’alternarsi di intensità e di pause, di comunicazione e silenzio, il dolore, la gioia.

E la pena, anche quella dell’estrema solitudine in cui come madre di una figlia disabile tante volte si è sentita confinata, Ada d’Adamo non l’ha rimossa, mai: neppure un momento.

“Avere un figlio invalido significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli. Indietro non si torna. Uguale a prima non sarà più. È come se dentro di te si fosse accomodato il punteruolo delle palme che rosicchia la pianta dall’interno piano piano, la trasforma in un involucro pieno di segatura. La superficie resta uguale, ma sotto i bordi, sotto la pelle, non resta più niente. La solitudine è fatta di puntini piccoli, uno vicino all’altro. Non te ne accorgi. C’è l’amica che continua a regalarti capelli troppo grandi per la testa di bambina microcefala. Il cugino che con un certo orgoglio ti sventola sotto il naso un giocherello di legno che nemmeno un adulto normodotato riuscirebbe a far funzionare ma che lui si vanta di aver scelto apposta per tua figlia. Episodi che fanno rabbia, fanno tenerezza, fanno pietà, fanno pure sorridere, quando ti gira bene. La verità è che le vite degli altri scorro uguali a prima […] Scava anche la compagna di scuola che resta incinta e partorisce e ha un figlio ormai di qualche anno e non ti dice nulla, forse per il pudore di non volerti sbattere in faccia la sua felicità. Un altro puntino. Scavano pure quelle poche persone che ti sono state vicine i primi tempi, ma poi la loro vita è andata avanti, i figli sono cresciuti e se li sono portati via verso feste di compleanno e picnic, corsi di nuoto e campeggi estivi e pigiama party. È la vita che chiama. E tu resti sempre lì, al palo, mentre loro vanno avanti, vanno oltre, sono già via. Sono via, lontano, anche quelli che dovrebbero stare più vicino. Via fratelli e sorelle. Via nonni, zii, cugini, nipoti. Il dolore allontana, la malattia spaventa. Le famiglie si sfasciano. Via, via, via. La solitudine fa talmente compagnia che a un certo punto non si ha più bisogno di niente.”

Ada danza dunque la sua vita, e noi con lei, leggendo, seguiamo la sua coreografia fatta di impegnati virtuosismi, gesti quotidiani, sospensioni, accelerazioni, immobilità, cadute e risalite.

La sua intelligenza cerca, si informa, parla, costruisce e distrugge mentre il suo cuore accoglie tiene al caldo, culla, abbraccia e protegge.

Un libro di straordinaria qualità. Straordinaria in senso letterale e letterario. Fuori dall’ordinario. Non c’è pagina, non c’è frase dentro questo libro che non travolga per forza e pietas, ma soprattutto per immensa sapienza letteraria. Il lavoro sull’incandescenza della storia è quello di una miniaturista attenta e precisa, che non si lascia sfuggire un aggettivo, un verbo, niente scivola fuori dalla giurisdizione e dalle regole della letteratura.

Una calma lucida, una tessitura di parole precise, un periodare che arriva da un luogo lontano, là dove solo il narratore, il sofferente, è approdato, di laggiù il narratore si rivolge al lettore.

Il futuro, il presente, la memoria si armonizzano fondendosi in una scrittura che continuerà a raggiungere molti lettori attraverso il viaggio ancora lungo, che continuerà con le parole, come fili invisibili e resistenti al tempo, a riscrivere la fine, ricucendola, capovolgendola, precorrendola.

Ada d’Adamo lascia un dono!

Ci consegna il contatto con la parte più profonda dell’espressione umana: una singolarità ineffabile, misteriosa, magica, capace di tenere insieme ciò che altrimenti sarebbe scisso, abbandonato, escluso. Con le cicatrici esposte al sole della propria vulnerabilità, la solitudine è un’intimità incandescente, luminosa, soffice.

Con la leggerezza di una farfalla la scrittrice ha appoggiato sulla carta e destinato all’eternità tutte le domande che molti non avrebbero mai posto: senza colpa alcuna, ma magari solo per comprensibile pudore, paura, timore di ferire oppure per autentica afonia dell’anima.

D’Adamo chiude infatti citando Chandra Candiani.

“Come amare sapendo che la separazione ci aspetta? /Come essere pienamente e saper sparire? Non lo so. /Sono le leggi della vita, le sue imperscrutabili coreografie, /danze per non vedenti, un soffio leggero ci sfiora la faccia /e le mani e pure non vedendo sappiamo: la danza continua”.

Oggi Ada non c’è più. Ha lasciato questa terra due giorni prima di sapere che il suo libro sarebbe entrato nella dozzina del Premio Strega.

E oggi qui, a libro chiuso, cuore affranto e sguardo aperto, mentre traccio una mappa dei sentimenti di lettura, la immagino volteggiare in aria, con il suo minuto corpo ormai leggero. La immagino fare ciò che ha sempre amato, felice di poter ritornare ad essere solo Ada. La donna dai grandi sogni, speranze e passioni che la vita ha provato ad arrestare ma che invece continuerà a vivere nel ricordo di sua figlia Daria, del marito Alfonso e di coloro che l’hanno amata, e di chi come me, tra molti, accoglie questa grande testimonianza di immensa forza, coraggio e amore.

Come d’aria siamo tutti …. tangibili solo nel qui e ora inconsistenti e inafferrabili rispetto all’eternità.

D’aria è quel qui di cui abbiamo bisogno, ora più che mai.

Aria fisica e simbolica: un respiro più ampio, che ci consenta di resistere alle innumerevoli apnee imposte da un sistema di vita che tutto consuma – gioie e dolori – di corsa, imponendo un ritmo incalzante capace di determinare un soffocamento autoindotto.

È respiro questo romanzo!

Da lì si comincia a recuperare una narrazione utile al vivere.

Bella e utile.

Come dovrebbe essere qualunque storia di vita, di parole.

Anche a queste folli altezze, dove ossigeno e respiro sembrano mancare e la vita deve lottare per sopravvivere può sbocciare la bellezza in quei finiti campi, definiti dall’esistenza!

 

 

AUTORE: Ada d’Adamo

INTERVISTA AD ADA D’ADAMO

GENERE: Memoir

EDITORE: Elliot 2023 ( collana Scatti )

NUMERO DI PAGINE: 132

Acquistato Online

(Ricordati, se puoi, di sostenere le piccole librerie indipendenti)

Subscribe
Notificami
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
error:
0
Would love your thoughts, please comment.x