La Ciociara
RECENSIONI

La Ciociara – Alberto Moravia

Mentre pensi ad inviare un messaggio, parli con il tuo compagno o controlli l’orologio, mentre con la mano ti sistemi i capelli mentre guardi un atleta segnare, controlli l’ultimo estratto-conto, c’è gente che muore. In qualche città, sotto i colpi di fucile, in mezzo alle fiamme, ai bombardamenti, agli spari, senza nemmeno sapere il perché, in posti piccoli sconosciuti, sotto gli occhi di tutti e di nessuno, nel silenzio rotto solo dalle bombe o per reclamare il diritto ad un grido o un addio c’è gente che muore.

Al male, quando lo immagini, puoi sopravvivere ma quando lo vedi e lo vivi non hai più scampo.

Questo è il riso amaro della realtà, delle violenze, dei soprusi e degli orrori della guerra descritti nel romanzo “La Ciociara” di Albero Moravia.

Un dolore dilagante, un viaggio disperato verso un riparo, un susseguirsi di lutti, di violenza, di fame e di inumana distruzione, carestia e condizioni degradanti. È tutto così buio e tetro in un mondo cieco, sordo, indifferente e silenzioso, dove tutti sono tesi a difendere i propri interessi, i propri traguardi, senza più diritti, dove l’unica legge che vige è quella del più forte.  

Ecco che cosa è la guerra: un lampo accecante, una folgorazione che respinge istantaneamente il presente dal passato e fa dell’impossibile un presente di pieno diritto.

È la violazione del diritto individuale alla libertà.

Alcuni romanzi contengono pagine di una forza così intensa e inaspettata che quando il lettore ci arriva, dopo deve fermarsi. Non può continuare a leggere, ma sente il bisogno di chiudere il libro, magari tenendo il segno con l’indice incastrato fra le pagine, respirare profondamente, ricacciare indietro le lacrime. Sono momenti di commozione potente che i grandi scrittori dosano con parsimonia e che sanno travolgere chi legge con l’autenticità della vita.

“La Ciociara” contiene più di un momento del genere.

È un romanzo lungo e lento. Di interi capitoli si è detto che sono prolissi e ripetitivi.

Moravia ha replicato alle critiche sostenendo che quelle pagine monotone dovevano rendere la lentezza e l’incertezza dei giorni di guerra per gli sfollati, la snervante attesa nella penuria, nello spavento e nella fame della fine della belligeranza, fine sempre imminente e sempre rimandata, sogno di una liberazione alle porte con l’arrivo di alleati che sembravano non arrivare mai.

Credo avesse ragione a dire così.

La guerra che preme su Roma e poi l’occupazione tedesca nel settembre del ’43 costringono Cesira ad abbandonare la capitale e, con la figlia e due valigie di fibra, a cercare rifugio verso Fondi, nella casa paterna. Prima le rotaie del treno interrotte, poi i bombardamenti impediscono che il progetto sia portato a termine e, con sacrifici notevoli, dopo quasi un mese di soggiorno presso una famiglia di contadini resa avida dalle privazioni e dalla miseria, le due donne trascorrono circa un anno a Sant’Eufemia, di fronte alla valle di Fondi e, quando il cielo è limpido, all’isola di Ponza.

Il tempo passa attendendo gli inglesi, in quel frangente sinonimo di libertà; ma a causa delle cattive condizioni climatiche gli Alleati sono fermi al fiume Garigliano, mentre i tedeschi rastrellano la zona portando via tutto. La «ciociara» e la figlia prendono coscienza di una realtà in cui il giusto e l’ingiusto si confondono, si mescolano, emergono i vizi e le viltà degli uomini, fino a dare al mondo un assetto diverso e sconvolgente.

 La guerra distrugge alle radici ogni risorsa umana:

“La guerra sconvolge tutto e, insieme con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono”.

Non è che una delle innumerevoli considerazioni che fa Cesira, perfettamente consapevole dell’immane flagello che incombe. E di un’altra cosa si accorge con orrore:

“Uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà”.

Morta la pietà e a liberazione avvenuta, quando Cesira e Rosetta con l’arrivo degli angloamericani lasciano quest’angolo di mondo che le ha viste spogliate di tutto, ma arricchite di una nuova e significativa esperienza, proprio allora la vicenda si scioglie nel dramma più cruento: in una chiesa abbandonata, davanti all’altare e ad un’immagine rovesciata della Madonna, un gruppo di soldati marocchini usa violenza alle due donne.

Le disavventure delle due protagoniste fanno da tessuto narrativo ad una più ampia e arguta meditazione su un imbruttimento morale che non risparmia quasi nessuno.

La guerra chiude gli uomini in una “tomba di indifferenza e di malvagità”, li deturpa a fondo, nell’animo, rendendoli apatici, duri di cuore e privi di pietà verso le disgrazie altrui.

Questa è l’idea principale che attraversa le pagine della Ciociara di Moravia, dove la triste storia di Cesira e di sua figlia Rosetta è l’emblema di un’Italia dilaniata e sfigurata dalle tragedie del secondo conflitto mondiale.

La carestia, i prezzi folli della borsa nera, la mancanza di un tetto dove trovare riparo e l’imperscrutabile malignità degli occupanti mettono a durissima prova i malcapitati del tempo, costringendoli a una lotta per la sopravvivenza dove non c’è spazio per “le leggi e il rispetto degli altri e il timor di Dio” e i valori dell’epoca di pace sono irrimediabilmente e catastroficamente capovolti.

Le uniche luci a brillare nello scenario cupo e miserevole descritto da Moravia sono quelle di due giovani ragazzi: Rosetta e Michele (uno studente sfollato con cui le protagoniste instaurano presto un rapporto di amicizia).

Pur animati da opposti ideali – Rosetta è estremamente religiosa, mentre Michele crede ferventemente nel socialismo – questi due personaggi appaiono sin da subito puri, genuini e sorprendentemente saldi in un mondo che continua a precipitare. Tuttavia, seppur in maniera diversa, la guerra non tarderà ad allungare le sue mani anche su di loro.

“La ciociara”, per buona parte, è la storia di queste gioventù spezzate, di due promettenti vite che in un contesto differente avrebbero ottenuto ben altra sorte.

Lo sfondo storico del romanzo è autobiografico; riflette le vicende che lo stesso scrittore e la moglie Elsa Morante, dovettero passare da sfollati proprio negli stessi luoghi del romanzo.

Questa circostanza si risolve in un vantaggio, perché accentua uno dei tratti più pregevoli della pagina dello scrittore, e cioè quella sua speciale capacità di rendere evidente, quasi a livello fotografico, l’ambiente e la caratterizzazione dei personaggi, con un’esattezza e una nitidezza di particolari che consente al lettore di vedere oltre che di leggere e ascoltare.

D’altro canto, proprio l’attitudine realistica ( tipica del neorealismo ) e la capacità mimetica dello scrittore, offrono il massimo risalto a figure che alludono all’irrazionale e all’assurdo, figure che appaiono e scompaiono come lucciole,  ad intermittenza nel libro, eppure potenti e rilevate: il russo venduto ai tedeschi, consapevole della sua prossima fine; la donna folle che si aggira fra le macerie offrendo il suo seno nudo; il prete impazzito e la suora che lo accudisce dentro la squallida grotta degli sfollati.

“La Ciociara” di Alberto Moravia non è tanto un romanzo di guerra, quanto un romanzo antropologico, che guarda alla guerra dal punto di vista dei civili. Di quelli che più ne soffrono le brutalità e le privazioni.

Le parole semplici e rustiche e lo sguardo attento della ciociara protagonista interpretano i gesti dei contadini e degli sfollati. Ne ravvisano egoismo e crudeltà, ma talvolta anche purezza d’animo e generosità.

Ciò che la guerra porta a galla è il lato più intimo, vero e nascosto dell’uomo che galleggia tra l’incertezza e la violenza.

La guerra è guerra, non c’è da scherzare, e Moravia ci scaraventa dentro, nelle giornate sonnolente d’attesa, nei quotidiani timori, nelle speranze vanificate, nell’universale dolore. È un libro che un po’ logora dentro, così come fa qualsiasi guerra. Perché la guerra non finisce con l’armistizio: i suoi strascichi, indelebilmente marchiati nell’animo dei superstiti, restano, come scorie radioattive impossibili da espellere. Un romanzo non sempre scorrevole, non certo una lettura d’evasione: è un classico da leggere sì ma con la giusta motivazione e la dovuta attenzione.

Non troppo raffinato nello stile, la forma è semplicemente perfetta al suo fine.

È il mezzo che conduce con semplicità e maestria al risultato, con quella penna realistica e cruda che se deve essere di una donna semplice di umili origini lo è fino in fondo, nella più intensa rappresentazione popolare dell’amore materno e della disperazione di un essere umano morente, colpito suo malgrado dal morbo decadente della guerra in un bacino di appestati suoi simili.

Un libro dal passo lento e angoscioso della guerra, che alla lettura mischia il sentimento, che non si limita alla vicenda principale ma inevitabilmente si sofferma anche su personaggi minori che nelle loro poche righe fremono e lasciano il bossolo della loro umanità a terra, come quei proiettili nemici piovuti dal cielo.

Intenso, verace, umile e doloroso…

Buona lettura!

 

AUTORE:  Alberto Moravia

GENERE: Narrativa, Letteratura di guerra

EDIZIONE: Bompiani 2016 (collana i grandi tascabili)

NUMERO DI PAGINE: 314

NOTIZIE: Il romanzo è stato portato sul grande schermo nell’omonimo film di Vittorio De Sica del 1960. Gli interpreti principali sono: Sophia Loren (Cesira), Jean-Paul Belmondo (Michele), Eleonora Brown (Rosetta), Carlo Ninchi (Filippo, il padre di Michele), Raf Vallone (Giovanni); musiche di Armando Trovajoli.

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