La straniera
RECENSIONI

La straniera – Younis Tawfik

Un’esperienza recente per i lettori italiani: percepire sensibilità e mondi diversi senza il filtro della traduzione, trasportati qui da un lessico familiare. Leggere la propria lingua a volte stravolta e quindi rinnovata da autori che non sono di origine italiana. Oppure restituita a una purezza dai libri di scuola. O ancora volutamente piegata a sonorità che vengono da lontano. Tutto quello che è successo già all’inglese, al francese e anche al portoghese, nella letteratura con temine controverso definita postcoloniale, per noi è una assoluta novità: l’Italofonia.

Fenomeno cominciato timidamente negli anni Novanta, esploso nell’ultimo decennio con la trasformazione dei migranti in abitanti stabili del nostro Paese, con la crescita di giovani scrittori italianissimi per formazione e sensibilità ma portatori – per l’origine della famiglia – di culture altre.

Benché tra una cinquantina d’anni, a detta dell’Istat, un quarto della popolazione residente in Italia sarà composta da immigrati, gli scaffali delle librerie continuano a essere divisi in autori italiani e stranieri: nel settore degli italiani alloggia, in ordine alfabetico, la vasta famiglia che va da Arpino a Vittorini, passando per la Brianza di Gadda e le Langhe di Fenoglio, mentre gli scrittori dai nomi esotici – non importa se di lingua italiana o addirittura nati in Italia – sono abitualmente collocati in ordine di appartenenza geografica sugli scaffali della letteratura straniera.

Ma cos’è, oggi, la letteratura italiana?

Da quali materiali narrativi è alimentata?

Che posto hanno, nel nostro immaginario, Younis Tawfik, giornalista e scrittore iracheno in esilio in Italia dal 1979, Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese a Roma dal 1977, Igiaba Sciego, giornalista e scrittrice nata in Italia da una famiglia di origine somala, Amara Lakhous, scrittore algerino a Roma dal 1995?

L’elenco dei nostri “stranieri” è lungo; comprende il rumeno Mircea Butcovan, il persiano Hamid Ziarati, l’argentino Adrian Bravi, l’albanese Ornela Vorpsi – che continua a scrivere in italiano benché si sia trasferita in Francia – l’egiziana-congolese Ingy Mubiayi, e potrebbe andare avanti ancora.

Un Autore. Un lettore. Un Libro.
Capita, a volte, che si incontrino in un giorno lontano dalla data di pubblicazione che lo vide venir alla luce. Capita quasi per caso, ammesso esista quest’ultimo.
Capita, anche, che il libro ti segnali porzioni di realtà letterarie fino ad allora impensate. Che accenda un qualcosa in te. Una voglia profonda di saperne di più, di scavare a fondo. A me è capitato con “La straniera” il libro da cui è partito un interessantissimo viaggio di esplorazione sulla letteratura della migrazione…

La letteratura della migrazione… cioè quella letteratura espressa in italiano da scrittori di origine immigrata o prodotta da emigranti italiani che ci parla dell’Italia in un modo inedito e inconsueto poiché assume il punto di vista di chi la guarda dalla giusta distanza.

Uno sguardo venuto da lontano è dentro e fuori insieme, colpisce e destabilizza: specialmente se si esprime nella nostra lingua.

Ecco come letteratura italiana contemporanea ha spostato i confini.

L’esordio letterario di Younis Tawfik è datato 1999. L’editore Bompiani gli pubblica “La straniera”, che incontra subito un bel successo. Il romanzo vince numerosi premi, tra i quali il «Grinzane» e il «Comisso».

Al centro del racconto, ambientato a Torino, due personaggi: una ragazza marocchina, Amina, che ha attraversato il Mediterraneo insieme al marito per inseguire vanamente «il sogno europeo», e un giovane architetto mediorientale che sembra avercela fatta perché ha una casa, un lavoro gratificante, una moglie italiana.

Tra i due, che si incontrano proprio quando le loro vite sono a uno snodo cruciale (lei abbandonata dal marito e costretta alla prostituzione, lui lasciato dalla moglie e in preda alla solitudine), nasce un legame profondo e al tempo stesso impossibile.

Nel dialogo intenso e mai banale che si sviluppa tra i due, di volta in volta l’autore ci mette a contatto con i gravi problemi e le attese deluse degli immigrati, con i giudizi e i pregiudizi che si portano dentro, con le vicende contraddittorie e drammatiche dei loro paesi di origine, con la denuncia della condizione femminile nel mondo islamico, con quel sentimento di attrazione-repulsione che caratterizza il rapporto di molti islamici con la civiltà occidentale.

L’Architetto viene presentato fin dal principio come il prototipo dello straniero integrato: giunto in Italia per motivi di studio, ha poi terminato l’università e vi è rimasto a lavorare senza eccessive difficoltà. Il concetto di «integrazione», tuttavia, acquista nel romanzo una
valenza non del tutto positiva: quasi dimentico delle proprie origini e della propria specificità culturale, il protagonista si ritrova a vivere da italiano, ma senza esserlo fino in fondo. Non a caso verrà fortemente attratto da una donna di nome Amina, giunta dal Marocco, ma in condizioni legali, lavorative e psicologiche affatto differenti. L’Architetto, a causa dei disagi vissuti dalla donna di cui è innamorato, inizierà a pensare anche ai propri problemi di identità e integrazione, solo apparentemente risolti.

L’apparizione di Amina, arrivata in Italia con il fidanzato, ma presto abbandonata e costretta a prostituirsi per sopravvivere, introduce nel romanzo una nuova forma binaria. Le stesse vicende vengono raccontate ora dall’Architetto, ora dalla ragazza, in un intrecciarsi di situazioni e punti di vista differenti. Ci si trova così di fronte ad una struttura polifonica, strategia discorsiva molto comune nei testi delle letterature migranti e postcoloniali, non solo di espressione italiana. Si è già parlato in precedenza di “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” di Amara Lakhous e di “Madre Piccola” della Ali Farah.

Amina e l’Architetto rappresentano due aspetti di un identico problema: la nostalgia angosciosa, il sentimento di disappartenenza che entrambi portano dentro. In un certo senso la loro unione è inevitabile e impossibile: anche se a prima vista appartengono a mondi diversi ciascuno risulta per l’altro imprescindibile e necessario.

La donna trova nell’Architetto un segno tangibile delle proprie speranze: proiettandosi in lui, le sembra che una vita dignitosa per un immigrato, nella Torino del 2000, sia possibile. L’Architetto trova in Amina la chiave per comprendere il suo malessere: la tristezza per il rapporto finito male con la moglie e il timore di non riuscire realmente a sentire le emozioni gli sembrano grazie a lei problemi affrontabili.

Eppure, il loro rapporto non si consuma mai, immobilizzato da continui ripensamenti, rinvii, dubbi, circostanze casuali.

Per chi arriva dal Nord Africa, clima dolce e assolato, terra accarezzata dalla brezza del Mediterraneo e dalle calde ventate del deserto, la grigia e nebbiosa Torino diventa un luogo insopportabile, nonostante abbia rappresentato il luogo della rinascita, della svolta, dell’affermazione.

 I due si incontrano ripetutamente, e a vicenda si riversano addosso i racconti delle loro vite, dei drammi che le hanno segnate. Ma evidentemente l’ascolto dell’Architetto non è così empatico come Amina vorrebbe e quando il drammatico epilogo si abbatterà pesantemente sull’uomo questi con disperazione non saprà reggerne l’urto.

 La paura di amare diventa arma contro sé stesso.

Una nota di particolare interesse è rappresentata dalle numerose poesie che inframezzano la narrazione della storia e che regalano al lettore sprazzi di luce che aiutano a mettere a fuoco una storia difficile, ruvida, dove il senso della vita si perde nelle pieghe della sofferenza umana.

“Ti vedo nella mia ansia piangere…/ Timido il giorno/ Nasce dai tuoi occhi/ E nel tuo fragile sorriso/ Come sole triste, tramonta. / Vedo la mia memoria affaticata/ Come stormo di passeri./ Tu terra distante,/ terra vicina,/ è forse il mio destino/ restare lontano da te./ Vagabondando su percorsi intrecciati/ Senza mai uscirne?/ Forse il mio destino / È morire di struggente nostalgia?/ In questa terra straniera/ Fatta di ferro e di ghiaccio,/ in questa terra indifferente, senza sogni”.

Nelle liriche Tawfik riesce a trasmettere le sensazioni più intime del protagonista e, anche se gli inserti poetici apparentemente non hanno una precisa funzione narrativa, in realtà aiutano il lettore a comprendere una personalità complessa, confusa, in un momento di grande
riflessione. Le inserzioni poetiche inoltre sono retaggio di una specifica tradizione araba: vi è infatti un preciso stile letterario, il maqamat, scritto in prosa rimata e intarsiato con versi. Anche il testo orientale probabilmente più conosciuto in Occidente, “Le Mille e una notte“, era costruito con intermezzi poetici posti in apertura o come legami fra i vari racconti.

Nel racconto delle vite dei due protagonisti si intrecciano spaccati di una Torino popolata da gente ai margini della società, una città che iniziava a sperimentare l’accoglienza dello straniero, del diverso. Ma vi si intrecciano anche i racconti del paese di origine dei due protagonisti, il Marocco, del quale vengono descritti aspetti geografici e sociali tali da riuscire a delinearne il profilo.

Il romanzo “La straniera” di Younis Tawfik è un’occasione importante e forse davvero unica di approfondimento, di riflessione, di meditazione sui temi, molto attuali e di un certo rilievo, dei rapporti fra l’Europa, e l’Occidente in generale, e le altre culture del pianeta; ma, allo stesso tempo, apre anche le menti, la psiche, il cuore verso tutti coloro (e sono molti) che vivono ai margini di una società ricca, opulenta, icona indiscussa del consumismo più sfrenato e subdolo.

Una società che non riesce mai ad integrare e ad armonizzare, anzi crea esclusione, rifiuto, emarginazione e, non da ultimo, razzismo e umiliazione della dignità umana, accompagnando il lettore, che si sente abbastanza forte e coraggioso per iniziarne la lettura, innanzitutto, anche nei passi più duri, più crudi e diretti, con un alone di poesia e di amara nostalgia, i quali non dovrebbero mancare mai in nessuna opera veramente e altamente letteraria degna di essere definita tale.

Un romanzo che ci porta ad anni in cui il fenomeno migratorio era ancora agli inizi, quando ancora non si parlava di invasione, ma le difficoltà dei viaggi per arrivare in Europa e quelle che si sperimentavano una volta arrivati erano sostanzialmente identiche.

Un romanzo riuscito che, non a caso, coniugando temi forti ad un elegante approccio scrittoriale, è diventato il primo (e sinora unico) libro di un certo successo nella categoria “scrittori migranti”: ha venduto intorno alle 20.000 copie, ha ricevuto il Grinzane Cavour, elevando, in più, Younis Tawfik al ruolo di mediatore culturale tra la comunità araba e l’Italia.

Una storia forte, struggente e intensa, a tratti dura da accettare, di una cultura che cerca di adattarsi alla nostra, vissuta attraverso un uomo e una donna stereotipati, racchiusi in un amore lontano, che porta il lettore ad un coinvolgimento tale da commuoversi.

204 pagine pregne, a tratti avvicinabili a tratti respingenti; un piccolo testo dai grandi occhi, un invito allo sguardo, al contatto, all’apertura, alla riflessione e all’incontro.

 

AUTORE:  Younis Tawfik

GENERE: Narrativa, Letteratura di migrazione

EDITORE: Bompiani 2003 (collana i tascabili)

NUMERO DI PAGINE: 204

NOTIZIE: Vincitore del Premio Grinzane Cavour 2000

Acquistato online (ora disponibile solo nella nuova edizione)

(Ricordati, se puoi di sostenere le piccole librerie indipendenti)

 

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